domenica 23 maggio 2010

POLANSKI, QUANDO L'AUTOBIOGRAFIA AL CINEMA E' UN PASSO INDIETRO


“Questo tribunale è una farsa”. Parola di Roman Polanski. O meglio, un pensiero del regista attraverso la voce di Pierce Brosnan. Accade nelle umide, acquatiche atmosfere di 'L'uomo nell'ombra' (The ghostwriter). L'ennesima fetta della stessa torta: nella pellicola ci sono tutti i temi più cari al cineasta. La discesa nell'incubo non è paragonabile né a 'Rosemary's Baby' (1968), né a 'L'inquilino del terzo piano' (1976). Sopravvive però quel senso di oppressione del protagonista, impotente davanti alla roulette del fato, che sta per fermarsi su un numero rosso.

Quel colore che, circa a metà film, fascia Olivia Williams, la moglie del premier inglese che forse si è macchiato di crimini di guerra. Un rosso improvviso: è arrivato il diavolo. La donna è Lucifero e vuole portarsi a letto l'ignaro ghostwriter Ewan McGregor, uomo qualunque assoldato per buttare giù la biografia di un leader politico chiacchierato. Il protagonista vorrebbe fare solo il suo lavoro. Ma è costretto ad affrontare una ex first lady misteriosa, l'oscuro passato del suo cliente e la strana morte del biografo che lo ha preceduto.

Troppo prevedibile, Roman. A metà film la tua roulette potrebbe sorprenderci e slittare sul nero. Purtroppo è inchiodata sul rosso. Un intreccio troppo convenzionale vanifica l'ottimo effetto ottenuto tramite atmosfera e ambientazione. Ci sono tutti gli ingredienti straconosciuti del tuo cinema. I sostenitori più accaniti apprezzeranno. Ma è lecito, dopo le ottime aurore de ' Il pianista' e 'Oliver Twist', aspettarsi di più. L'estemporaneo dileggio del tribunale dell'Aia, poi, sa di personale, con le dovute proporzioni. Ci sta e fa sorridere, ma uno spunto simile avrebbe meritato un plot più solido.

In definitiva, un passo indietro perdonabile a una leggenda. Ma confido nel futuro: che siano nuovamente note di libertà. I tuoi fan e il cinema ne hanno bisogno.

domenica 16 maggio 2010

DRAQUILA, L'AFFRONTO CON POCA SATIRA E MOLTO GIORNALISMO


Un cittadino aquilano sorride alla telecamera. Afferra fiero, incredulo, un vaso di plastica con dentro delle spighe di grano, finte. Il contenitore è griffato 'Protezione Civile', con tanto di stemma. Tra le tante sequenze evocative di 'Draquila' questa, per chi scrive, è la più rappresentativa. Pochi istanti per racchiudere il punto di vista di tutta un'inchiesta. Non un documentario: nessuna narrazione. Una tesi invece. Ben sviluppata, argomentata, con un filo di retorica politica che a tratti stanca, a tratti diverte. Questo è il monstrum della Guzzanti. Morale della favola: tante chiacchiere inutili su un prodotto che andrebbe analizzato per quello che è, e non per quello che si ha paura che sia.

Impossibile depurarsi dalle polemiche di casa nostra. Ma proviamo ad analizzare 'Draquila' da esterni, come se fossimo degli spettatori groenlandesi. Si parte da un fatto di cronaca, il terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009. Si analizza l'intervento ricostruttivo. Si ragiona sui soldi spesi. Si fa la conta di chi è intervenuto e di come lo ha fatto. Si ascoltano cittadini, istituzioni, enti, associazioni. Insomma, una torta con tanti gusti. E uscita bene. Il sapore può piacere o non piacere. Ma credo che si possa convenire sulla genuinità dell'operazione: 'Draquila' è un'inchiesta con pochi fronzoli. Pochissima satira vera e propria, se è vero che vediamo la Guzzanti che imita Berlusconi si e no per due minuti. Una robusta critica giornalistica, invece, alla legge che dà poteri indefinibili alla Protezione Civile. Che è la vera protagonista dell'indagine. Un meltin pot di belle inquadrature, immagini di repertorio e numeri di varia natura. Il ritmo cinematografico c'è, e la mente corre al più illustre predecessore, quel 'Bowling for Columbine' di Michael Moore che hanno visto in pochi.

Arriviamo ai rischi. In fin dei conti, quasi tutto quello che ci viene mostrato è già stato raccontato dai quotidiani italiani. Dov'è il pericolo? Che all'estero ci giudichino male? Se è vero che nel Nord America, mediamente, un'inchiesta video costa quanto tutto il budget che la Rai annualmente mette a disposizione per i documentari, ci accorgiamo che il mondo non prenderà 'Draquila' come un'anomalia. Una spesa del genere sottintende una cultura, in America come in Scandinavia. Alla fine, in controluce, Sabina Guzzanti sembra suggerire una sottoconclusione: in fondo, noi italiani Berlusconi ce lo meritiamo. Ipotesi partigiana, ma legittima: non esistono inchieste senza un chiaro punto di vista. E se si ama il cinema, bisogna lasciar fare il proprio lavoro agli autori. Invitati o no, d'accordo o meno.