domenica 28 marzo 2010

DONNE SENZA UOMINI, L'INCUBO LYNCHANO DI SHIRIN NESHAT


Un film americano sull'Iran. Possiamo aggiungerci l'aggettivo "buon"? Aggiungiamolo: un buon film americano sull'Iran. E' "Donne senza uomini", il coraggioso primo lungometraggio dell'artista visiva Shirin Neshat. Iraniana, appunto, e ormai trapiantata a New York. Così tanto influenzata dal cinema yankee che, nel suo film, è praticamente impossibile non riconoscere una serie di macroscopiche derivazioni.
La brava Shirin punta tutto sullo stupore. "Donne" è infatti un'incredibile serie di installazioni fotografiche. La telecamera è fissa, l'immagine è profonda chilometri. I colori sono il nero, il marrone, il grigio in tutte le sue sfumatore. Le tonalità veicolano la disperazione. Il contesto è l'Iran del 1953, i tumulti di piazza e lo storico, vano tentativo di approdare alla democrazia. Quattro donne però vivono una tragedia peggiore. I loro sogni vengono mutilati dall'ottusità maschile. Munis, Faezeh, Fakhiri e Zarin fuggono, tutte. Per tre di loro il rifugio è una cadente villa fuori Teheran, sorvegliata da uno strano custode. Nessuna di loro riuscirà a ritrovarsi. Per la quarta, resuscitata come uno zombie di Romero, l'unica speranza è nella lotta.
Insomma, gli ingredienti per una zuppa favolosa ci sarebbero tutti. La confezione è impeccabile. Ma il cuore? Latita. In effetti Shirin Neshat è più interessata a impressionare lo spettatore con la sua visionarietà. La storia è un pretesto. L'Iran lo vediamo, ma i singoli drammi delle protagoniste sono appena accennati. Il film naviga a vista. Spesso perdendosi in un incubo lynchano a metà tra Velluto Blu e Mulholland Drive. Spesso pigiando troppo sull'acceleratore del surreale. Della resurrezione abbiamo detto. Ma il bosco che circonda la villa della speranza? Un po' Von Trier (le plumbee atmosfere di Antichrist), un po' La Casa di Raimi, con tutto quel fumo. Le protagoniste lo cercano con insistenza, per un'ambigua catarsi.
Voto dieci allo stile. Voto sei alla coerenza narrativa. E quando Fakhiri indossa un fazzoletto attorno alla testa con tanto di occhialoni da sole, ci troviamo davanti un clamoroso omaggio sia a Rita Hayworth, sia appunto al peggiore degli incubi di David Lynch, Mulholland Drive.
Molta America. Forse troppa.

giovedì 25 marzo 2010

L'INNOCENTE AMBIZIONE: L'UOMO CHE VERRA'


Amo una poesia di Salvatore Quasimodo, dal titolo "Uomo del mio tempo" (1946). Ieri sera, durante la visione de "L'uomo che verrà", non poteva non venirmi in mente. Un estratto:

Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Il secondo lungometraggio di Giorgio Diritti (dopo il bellissimo Il vento fa il suo giro) nasce dalla vita quotidiana e si conclude tra la morte quotidiana. L'uomo che verrà non è solo un bambino in fasce. E' l'uomo che ha macchiato l'esistenza con l'odio, e che ha bisogno di espiare. L'uomo che verrà è anche una riflessione di Diritti sulla ciclicità del male, se mi è consentito dirlo. Perché il Male è stato, ma da queste parti si muove ancora.
I pregi del film vanno trovati nella parabola narrativa. La quotidianità si intreccia con la paura, la vita più semplice a volte dimentica i pericoli più prossimi. Perché era effettivamente così, come mi è stato raccontato dai miei nonni: la vita doveva andare avanti.
Mi viene in mente la matriarca che fa irruzione nel festino tra donne del paese e partigiani, per evitare la perdita dell'onore. Tanta vita spontanea, e la mente corre dritta a "L'albero degli zoccoli" di Ermanno Olmi.
Il racconto scorre con fluidità. Poi c'è l'orrore, a interrompere tutto bruscamente. La telecamera non ci risparmia niente: esecuzioni, vigliaccherie, vendette. Tutto è lì, brutalmente nitido. Per questo il film non può essere considerato nè politico, nè ruffiano, nè retorico. L'occhio è, quasi sempre, quello della piccola Martina (la stupefacente Greta Zuccheri Montanari). Resa muta dall'orrore, agisce soltanto. E' l'innocenza l'unica via della speranza. Il salvataggio del neonato fratellino è l'unico atto puro (Del Toro nel "Labirinto del fauno"? Mi sa proprio di si).
Semplicità e innocenza dicevamo. Ma la pellicola nutre un'ambizione non comune. Le sottotrame sono tante, le inquadrature sono complesse anche nella loro fissità. Le musiche sono quasi spettrali, roba che in "Rosemary's Baby" di Polanski cantava il coro dell'Antoniano. Il finale, poi, ha un che di fiabesco che dà a Diritti un'autentica patente da giovane cineasta.
Insomma. Se ha un difetto, questo film, sta proprio nel voler dire tantissime cose. Ma forse il cuore sta tutto lì, nel giovane ribelle morto che viene consegnato alla famiglia coperto da un telo bianco, sorretto dalla stessa lettiga usata per trasportare il maiale da ammazzare.
Gli uomini sono diventati come animali. L'uomo che verrà. Appunto: l'Uomo, con la lettera maiuscola, deve ancora arrivare.

martedì 23 marzo 2010

"RETROVERTIGO" - CHANGELING, L'ANGELINA CHE NON TI ASPETTI


Tra i partiti presi del cinema contemporaneo, svetta fiero l'adagio: "Angelina Jolie non sa recitare". Sbagliato. Effettivamente, dopo l'exploit di "Girl, interrupted" la diva con le labbra tumide non aveva più azzeccato un film. Poi però è arrivato Clint Eastwood. La meticolosa direzione del "Cavaliere pallido" l'ha rimessa al mondo. Ed ecco che viene fuori "Changeling" (2008), un quasi capolavoro che è stato sottovalutato dalla critica americana e schivato con consapevolezza dal miope pubblico italiano.
E' un film eastwoodiano fino al midollo. Tranne l'apertura finale, quando Angelina sussurra la parola "hope", speranza. Nei film di Clint la speranza non esiste, la salvezza non esiste. Angelina invece sussurra, come se volesse anticipare il grande disegno che di lì a poco grifferà "Gran Torino".
Ma al di là della valenza del film, bisogna sottolineare la performance dell'attrice. Intensa nei momenti drammatici, leggera quando l'aria è meno satura, monumentale quando si trova a esprimere, con una semplice espressione facciale, tutto lo sbigottimento per la sequela di ingiustizie perpetrate dalla polizia di Los Angeles.
La sua Cristine Collins, madre alla quale hanno rapito l'unico figlio, è una barricadera dell'umiltà alla quale è impossibile non affezionarsi. Angelina arriva in fondo al film integra, sia come personaggio sia come attrice: nessun compromesso e nessun cedimento per più di 2 ore. Dannatamente underrated.
Un film triste, effettivamente pesante in alcune parti. Ma incredibilmente profondo (il commovente finale) e, soprattutto, intimamente condivisibile da ognuno di noi.
Certi legami sono unici. Diamo alla Jolie i giusti meriti: ci ha regalato un'intepretazione memorabile ed è giusto annoverarla tra le grandi attrici dei mai tanto rimpianti anni zero.

venerdì 12 marzo 2010

THE HURT LOCKER, L'ORGOGLIO SENZA RIFLESSIONE


Uno dei migliori film del 2008 è stato "Nella valle di Elah", di Paul Haggis. Una pellicola scandalosamente ignorata agli Oscar, sia per le interpretazioni (Tommy Lee Jones da brividi, Charlize Theron forse al suo massimo) sia per la sceneggiatura. Il buon Haggis, già sceneggiatore di "Mystic River" e "Letters from Iwo Jima" per Eastwood, ha buttato giù lo script del film insieme al giornalista Mark Boal.
Lo stesso Boal ha scritto per Kathryn Bigelow "The hurt locker". Vincitore di 6 premi Oscar: regia, film, sceneggiatura originale, montaggio, sonoro, montaggio sonoro.
In entrambi i film si parla di Iraq. Con Haggis lo immaginiamo. Ma al tempo stesso lo respiriamo. Con la Bigelow lo vediamo e lo temiamo. Due storie diverse. Due film di grande spessore. Ma perché uno è stato ignorato dall'Academy mentre l'altro ha trionfato? Proviamo a spiegare.
Il bivio parte dal messaggio. Il film di Haggis si concludeva con un vero e proprio affronto all'orgoglio militarista statunitense. Hank Deerfield, che ha perso un figlio ucciso dai suoi stessi amici commilitoni, issa la bandiera a stelle e strisce...al contrario. Nel linguaggio militare, una bandiera issata capovolta veicola un messaggio di aiuto per disastro. L'aiuto per una Nazione che ha perso l'Etica e la Morale.
Viceversa nel film della Bigelow non c'è nessuna richiesta d'aiuto. C'è un coraggioso artificiere (il bravissimo Jeremy Renner) che, dopo aver rischiato continuamente la vita, si ritrova a guardare in stato catatonico un enorme scaffale di un supermercato dal quale traboccano scatole e scatole....di cornflakes.
Le metafore pareggiano per potenza. I film sono stati scritti dalla stessa persona. Ma se da una parte c'è l'orgoglio della Nazione, dall'altra c'è la vergogna. E l'orgoglio può trionfare agli Oscar, la vergogna assolutamente no.
Peccato che la sceneggiatura di "Nella valle di di Elah" sia mille volte superiore a quella di "The hurt locker". Il senso di smarrimento dell'ex ufficiale Tommy Lee-Jones, repubblicano convinto che poco a poco realizza come la guerra sia capace di generare mostri, non può essere paragonato alla triste parabola dei soldati della Bigelow. Stilisticamente perfetto, montato da Dio, fotografato alla grande, girato in maniera coraggiosa, "The hurt locker" crea un'atmosfera imbottita di ansia e angoscia che però non scatena nè una riflessione autocritica nei soldati (semmai timidamente accennata), nè aiuta a capire perché questi ragazzi possano effettivamente rimanere senza emozioni, legati soltanto all'adrenalina da battaglia. Soldati coi quali condividiamo per due ore paure e e rischi. Ma questo succede solo grazie alla sapiente mano della Bigelow, che con la macchina da presa coinvolge lo spettatore al punto di non farlo quasi più respirare.
Paul Haggis invece aveva parlato al cuore. C'era riuscito illustrando l'ampio spettro dei nemici dell'animo umano: ambiguità, superficialità, solitudine, rabbia.
Complimenti alla pellicola che ha trionfato agli Oscar. Ma se vogliamo parlare di capolavoro meglio rivolgersi altrove. Stanno chiedendo aiuto.

giovedì 4 marzo 2010

THE BOOK OF ELI, LA PERFEZIONE STILISTICA HA UN CUORE


Premessa: ringrazio il Cinema perché continua, ripetutamente, a farmi tornare bambino.

"The Book of Eli" (Codice Genesi, nel solito titolo italiano cacio e maccheroni) è un film che si legge. Non mi era mai capitato, prima, di sfogliare un film. Accade, di solito, di vedere pellicole tratte da graphic novel. Ne cito due che ho amato. "Road to perdition" (Era mio padre, in Italia) di Sam Mendes e' stato tratto da una graphic novel di Max Collins e deve a quell'opera una certa fluidità narrativa. Stessa storia di "A History of violence" di David Cronenberg, tratto da una graphic novel di Vince Locke e John Wagner.
Il film di Albert e Allen Hughes, invece, proviene da una sceneggiatura originale. Possiede una forza strana: sembra suggerirti di averlo già visto, disegnato su qualche vecchio tomo impolverato. E non è tutto: il film è riuscito ad avvincermi in maniera subdola. Avevo voglia, seduto in sala, di girare la pagine per sapere. Posso dire, per quanto mi riguarda, che l'ambizioso progetto dei fratelli Hughes, quello di dare vita a una storia potente come un libro, è completamente riuscito.
L'ambientazione post-apocalittica è l'unico punto debole del film. Perché di film, libri e videogiochi immersi nella stessa atmosfera ce ne sono tantissimi. Il punto è che gli Hughes non ripetono l'operazione. Semplicemente la migliorano, la innalzano.
La fotografia mozza il fiato. In alcuni momenti sembra di fissare dei quadri. I lenti movimenti di macchina negli spazi aperti sono puliti e precisi. La tecnica narrativa è senza sbavature: di fatto lo spettatore apprende a poco a poco delle cause del disastro atomico. E non apprende tutto. Le citazioni sono tante e fantastiche: desolazioni e personaggi border-line alla John Carpenter, duelli e dialoghi alla Sergio Leone, sparatorie tra Bullitt e blaxpolitation.
E il messaggio? Potente, come la parola di un libro che rappresenta una religione. Scontato? No, se raccontato come lo raccontano gli Hughes. I colpi di scena finali non vanno svelati, quindi non dirò il mio parere sulla lettura biblica che suggeriscono i registi. Dirò solo che il film, apparentemente in maniera contraddittoria (i violenti corpo a corpo), stimola una notevole riflessione sui concetti di Fede e Speranza.
Gli attori: perfetto Denzel Washington (il suo addio al Cinema per darsi al teatro?), sempre maestoso Gary Oldman nell'incarnare un cattivo stereotipato ma più che credibile. Brava la co-protagonista Mila Kunis, sorprendente la rediviva Jennifer Beals (si si, quella di Flashdance)

I due registi di colore si sono fatti attendere. Ma l'attesa è stata ripagata. Nove anni dopo "From Hell", gli Hughes ci hanno regalato un western avanti con gli anni. Un film che sarà venerato dai posteri. Quando molto sarà irreparabile. Quando ci si appellerà soltanto alla Fede.

La splendida colonna sonora

lunedì 1 marzo 2010

CLINT: ERI "INVICTUS", ORA PERO' HAI ANCHE TU UN PUNTO DEBOLE


Mai avrei pensato di potermi trovare, un giorno, a scrivere una recensione del genere. "Invictus" mi ha spiazzato. A circa metà del secondo tempo mi sono sorpreso a desiderare l'ingresso in scena di William Munny (Gli Spietati, 1992). Ovviamente con la mitica frase "Chi è il padrone di questo cesso?" e conseguente repulisti della nauseabonda atmosfera da serial televisivo.
Clint...coraggio....fatti dire che hai sbagliato un film. Non succedeva, a memoria mia, dal controverso "Mezzanotte nel giardino del bene e del male" (1997). Anche in questo caso, molta più noia che stupore. "Invictus" è un piatto lungometraggio con tempi da serial televisivo. E la mano di Clint Eastwood? Invisibile, più che invincibile.
Ma andiamo con ordine. Cosa ci si aspetta da un film di Clint Eastwood? In primis un grande lavoro sugli attori. Bene, in "Invictus" ce n'è uno. Isolato. Morgan Freeman. Il Mandela di Freeman è quasi perfetto. Qualche volta sembra di vedere un gigione alla Bill Cosby (I Robinson). In altri frangenti, davvero pochissimi, appare il leader che porta sulle spalle una Nazione intera. In entrambe le versioni, comunque, l'interpretazione dell'attore è convincente.
Ma se promuoviamo Freeman, non possiamo fare altrettanto con Matt Damon. Il capitano della Nazionale sudafricana di rugby è monodimensionale. Pienaar è completamente manipolabile dal "buonismo" mandeliano. Possibile? Non lo so, ma qui l'Eastwood touch non è pervenuto. E gli attori di contorno? Quasi invisibili, considerando che diranno un quarto delle battute dell'intero film. Può reggersi un intero film solo su Morgan Freeman? Nella direzione degli attori, in soldoni, stavolta Clint sbaglia il colpo.
Veniamo alla seconda cosa che ci si aspetta da un film di Clint Eastwood: l'analisi cruda e realistica della realtà che si racconta. Il Sud Africa di "Invictus" è sbiadito. Si perde completamente la visione della società sullo sfondo. Non metto in dubbio che il Mondiale di Rugby abbia solidificato i rapporti tra neri e afrikaaner. Ma nel promettente primo tempo, possibile che l'unico attrito registrabile sia nel meltin' pot all'interno delle guardie del corpo presidenziali? Tutto scorre in questa specie di stato di grazia, senza intoppi. E intanto lo spettatore sbadiglia.
Veniamo alla storia. Conosciuta, nell'epilogo. Avvincente nello svolgimento? Eastwood doveva e poteva osare di più. Di fatto nel film tutto va come dovrebbe andare e il regista non lascia allo spettatore una benché minima riflessione nè sulle problematiche razziali sudafricane, nè sulla complessità della figura di Nelson Mandela.
Due sono le scene simbolo di ciò che poteva essere e invece non è stato. La prima, quando la "nuova" guardia del corpo bianca, durante il solito footing notturno, chiede a Mandela come sta la sua famiglia. Mandela risponde: "La mia famiglia è composta da 52 milioni di sudafricani". Bene, da uno spunto del genere Eastwood poteva raccontarci di più del Mandela privato, dei suoi trapassi interiori. E invece zero.
La seconda scena è l'incontro per il thè tra Mandela e Francois Pienaar. Due chiacchiere scialbe e la sensazione di un'occasione persa, a livello cinematografico.

In definitiva, se a questi problemi ci aggiungiamo una regia convenzionale, delle partite di rugby assolutamente noiose e prive di pathos e dei dialoghi mai memorabili (colpa della sceneggiatura?), ecco che abbiamo un NON FILM di Clint Eastwood.
Se lo vogliamo vedere con occhi critici. Se invece vogliamo apprezzarlo per le capacità d'intrattenimento - del resto in pochi conoscono la storia della Coppa del Mondo di Rugby 1995 - allora potremmo anche dire che è un'onesta variante in un piovoso pomeriggio domenicale.
Ma al Cinema, purtroppo, non aggiunge davvero nulla.
Clint, sei vulnerabile anche tu.