mercoledì 14 settembre 2011

ARONOFSKY, CRONENBERG, POLANSKI. TRE REGISTI, DUE TIPOLOGIE DI PUBBLICO, UN SOLO CINEMA


La Mostra del Cinema di Venezia è stata vinta dal film 'Faust' del russo Alexander Sokurov. Ammetto l'ignoranza: lo conosco pochino. Ma se l'hanno premiato un motivo ci sarà. Come quando a Cannes hanno dato la Palma d'Oro nel 2008 a 'Entre le murs' (La Classe, da noi). Un motivo c'era: la sera prima la giuria intera aveva bisbocciato alla trattoria 'Il curvone'. Ma quest'anno non mi interessa tanto sottolineare quanto sia chic il film che ha vinto. Mi interessa richiamare tre registi che si sono incontrati al Lido: Roman Polanski (che con 'Carnage' doveva vincere. Doveva.), David Cronenberg (Sua Maestà) e Darren Aronofsky (presidente di giuria, ma a lui sicuramente il film di Sokurov non è piaciuto).

Se c'è un concetto di cinema hollywoodiano intimo e personale, beh quel disegno di celluloide potrebbe avere la testa di Polanski (74 anni), il cuore di Cronenberg (68 anni) e i gesti di Aronofsky (42 anni). Trent'anni di discesa nell'incubo raccontata con grande classe. Tutti e tre hanno scelto, in epoche diverse, di raccontare storie di uomini e donne soli nella loro apocalisse. Senza retorica, con copioni ricolmi di segni e significati. E c'è qualcosa che mi piace nelle generazioni che furono e che non mi piace nelle generazioni che sono. Quell'essere immediatamente riconoscibili per cifra stilistica, quell'essere assolutamente personali e singolarmente spiazzanti come accade ai tre cineasti oggi non colpisce più. O meglio. Alcuni anni fa Polanski veniva fuori con 'Repulsion', 'L'inquilino del terzo piano' e 'Rosemary's baby', tanto per citarne tre. L'impatto su quel pubblico fu devastante, a cavallo degli anni '70.

Oggi uomini e donne di mezza età non solo ricordano la bellezza di Mia Farrow (Rosemary's) o Catherine Deneuve (Repulsion). Ma ricordano anche quanto quei film fossero degli efficaci pugni nello stomaco. Stesso discorso per 'Scanners' o 'Videodrome' di Cronenberg: dagli anni '80 una traccia su quella generazione è rimasta, indelebile. I miei coetanei invece, nel 2011, non sanno chi diavolo sia Darren Aronofsky. Eppure lo vediamo lì, pacioso, nei panni di presidente della giuria della Mostra di Venezia. I suoi 5 film sono un culto per gente malata: 'Requiem for a dream' potrebbe essere il titolo di un disco dei Linkin Park. 'The wrestler' facilmente un nuovo gioco alla PlayStation3. Eppure il cinema di Aronofsky è così parallelo a quello di Polanski e Cronenberg. Cosa è cambiato? Il cinema non di certo. Il pubblico sicuramente, visto che nessuno è più capace di stupirsi. E la curiosità è una rottura di scatole. Questa generazione ha pubblicamente desautorato il cinema. La settima arte non è più un perno culturale. Quella centralità si è persa. Ci tocca rimpiangere la cultura dei nostri padri. Quando la sala era l'inizio e non la fine di una serata

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