venerdì 16 settembre 2011
30 ANNI AL CINEMA. QUELLO CHE E' SUCCESSO UN MINUTO DOPO LA FINE DEL FILM
Domani compio 30 anni. A casaccio tutto quello che è successo, al mio cinema. Soprattutto cosa è successo nella mia testa un minuto dopo la fine del film:
- BATMAN (1989, Tim Burton): Avevo 8 anni e ricordo di essermi coperto gli occhi per la paura almeno 4 volte. Fifone. Innamorarsi di Kim Basinger. Ignorando l'esistenza di '9 settimane e 1/2'
- MILLION DOLLAR HOTEL (1998, Wim Wenders): Il giorno in cui ho capito, più o meno a 17 anni, che esistono i film veramente brutti.
- MATCHPOINT (2005, Woody Allen): Idolatrato da critica e pubblico. Per me una ciofeca non indifferente, la moralina finale appiccicaticcia. Il giorno in cui ho deciso che forse avrei fatto meglio a fare il giornalista.
- THE INSIDER (1999, Michael Mann): Film adulto e complesso che a 18 anni non ho capito. Ricordo di aver pensato di aver buttato 8mila lire. Rivisto qualche anno dopo, elevato da me a capolavoro, ho capito che per tutto c'è una maturità.
- MYSTIC RIVER (2003, Clint Eastwood): In questo caso è stata una ragazza a non farmi seguire tanto il film. Il giorno dopo compro Ciak e vedo che gli danno 5 stelle su 5. Votazione mai vista sulla rivista. Lo rivedo e mi rendo conto.
- SIDEWAYS (2005, Alexander Payne): Visto due volte al cinema. Un inno alla vita difficilmente ripetibile, un film così bello che lo rivedrei tutte le sere.
- FORREST GUMP (1995, Robert Zemeckis): Adolescenzialmente considerata pellicola memorabile. Si cresce e si rivaluta in negativo il Gumpismo. Con tutti questi fenomeni a piede libero che non riescono ad andare al di là del proprio naso.
- THE UNTOUCHABLES (1987, Brian De Palma): La cassetta Vhs l'ho consumata. Piango tutte le volte. Un film perfetto. E chi dice che manca il cuore non ha capito niente.
- THE SOCIAL NETWORK (2010, David Fincher): Anche lui fa parte della lista dei film visti 2 volte al cinema. Uscito dalla sala ero dispiaciuto che fosse finito così in fretta. Anche qui, film troppo complesso che diventerà culto tra qualche anno.
- LA BELLA E LA BESTIA (1993, Disney): Era Natale, avevo qualche linea di febbre, a Lanciano il cinema non c'era e mamma mi portò a Pescara. Mai stato così felice. Tra i cartoni di quegli anni forse il migliore.
- SPIDERMAN 3 (2007, Sam Raimi): La più grande delusione. Dopo lo splendido capitolo secondo, il buon Peter Parker mi crolla con un film con un secondo tempo orribile. Amen, peccato.
- VIDEODROME (1983, David Cronenberg): Visto molti anni dopo in dvd, mi ha aperto un mondo. Alla prima visione un cazzottone nello stomaco. Scuola di metafore.
- UP (2010, Pixar): Ho pianto tanto.
- LE IENE (1992, Quentin Tarantino): Il film più bello di Tarantino. Un'idea di noir poi sviluppata poco nei suoi film successivi
- BASTARDI SENZA GLORIA (2009, Quentin Tarantino): Ecco: film sopravvalutato e a tratti inutile.
- THE PASSION (2004, MEl Gibson): Film devastato dalla critica. A me è piaciuto, e pure tanto. Inaspettatamente commovente in più momenti
- THE PRESTIGE (2006, Christopher Nolan): Non c'è Batman che tenga: il miglior film di Nolan
- HEAT (1995, Michael Mann): Concludo col capolavoro di Mann. Milioni di imitazioni, rimane il più grande polar della storia assieme a 'Frank Costello faccia d'angelo' di Melville. Applausi a spellarsi le mani.
mercoledì 14 settembre 2011
ARONOFSKY, CRONENBERG, POLANSKI. TRE REGISTI, DUE TIPOLOGIE DI PUBBLICO, UN SOLO CINEMA
La Mostra del Cinema di Venezia è stata vinta dal film 'Faust' del russo Alexander Sokurov. Ammetto l'ignoranza: lo conosco pochino. Ma se l'hanno premiato un motivo ci sarà. Come quando a Cannes hanno dato la Palma d'Oro nel 2008 a 'Entre le murs' (La Classe, da noi). Un motivo c'era: la sera prima la giuria intera aveva bisbocciato alla trattoria 'Il curvone'. Ma quest'anno non mi interessa tanto sottolineare quanto sia chic il film che ha vinto. Mi interessa richiamare tre registi che si sono incontrati al Lido: Roman Polanski (che con 'Carnage' doveva vincere. Doveva.), David Cronenberg (Sua Maestà) e Darren Aronofsky (presidente di giuria, ma a lui sicuramente il film di Sokurov non è piaciuto).
Se c'è un concetto di cinema hollywoodiano intimo e personale, beh quel disegno di celluloide potrebbe avere la testa di Polanski (74 anni), il cuore di Cronenberg (68 anni) e i gesti di Aronofsky (42 anni). Trent'anni di discesa nell'incubo raccontata con grande classe. Tutti e tre hanno scelto, in epoche diverse, di raccontare storie di uomini e donne soli nella loro apocalisse. Senza retorica, con copioni ricolmi di segni e significati. E c'è qualcosa che mi piace nelle generazioni che furono e che non mi piace nelle generazioni che sono. Quell'essere immediatamente riconoscibili per cifra stilistica, quell'essere assolutamente personali e singolarmente spiazzanti come accade ai tre cineasti oggi non colpisce più. O meglio. Alcuni anni fa Polanski veniva fuori con 'Repulsion', 'L'inquilino del terzo piano' e 'Rosemary's baby', tanto per citarne tre. L'impatto su quel pubblico fu devastante, a cavallo degli anni '70.
Oggi uomini e donne di mezza età non solo ricordano la bellezza di Mia Farrow (Rosemary's) o Catherine Deneuve (Repulsion). Ma ricordano anche quanto quei film fossero degli efficaci pugni nello stomaco. Stesso discorso per 'Scanners' o 'Videodrome' di Cronenberg: dagli anni '80 una traccia su quella generazione è rimasta, indelebile. I miei coetanei invece, nel 2011, non sanno chi diavolo sia Darren Aronofsky. Eppure lo vediamo lì, pacioso, nei panni di presidente della giuria della Mostra di Venezia. I suoi 5 film sono un culto per gente malata: 'Requiem for a dream' potrebbe essere il titolo di un disco dei Linkin Park. 'The wrestler' facilmente un nuovo gioco alla PlayStation3. Eppure il cinema di Aronofsky è così parallelo a quello di Polanski e Cronenberg. Cosa è cambiato? Il cinema non di certo. Il pubblico sicuramente, visto che nessuno è più capace di stupirsi. E la curiosità è una rottura di scatole. Questa generazione ha pubblicamente desautorato il cinema. La settima arte non è più un perno culturale. Quella centralità si è persa. Ci tocca rimpiangere la cultura dei nostri padri. Quando la sala era l'inizio e non la fine di una serata
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giovedì 9 giugno 2011
THE SOURCE CODE. RIPENSARCI SOLO 8 MINUTI E CAPIRE CHE E' GRANDE CINEMA
L'ufficiale dell'aeronautica Colter Stevens (Jake Gyllenhall) entra a far parte di un programma governativo sperimentale che sta indagando su un attentato ferroviario. Colter è costretto a rivivere l'incidente attraverso 8 minuti del passato. Deve riuscire a individuare il responsabile e prevenire il prossimo attacco terroristico.
Nel caso di Duncan Jones verrebbe da dire: evviva il Dna. Se sei figlio di David Bowie magari puoi essere un po' instabile. Ma non potrai mai diventare un completo idiota. La storia delle mele cadute a chilometri dall'albero è interminabile, ma il caso del giovane regista è tra quelli felici, quasi commoventi. Dopo 'Moon', che ha fatto gridare al miracolo (un coraggioso sci-fi in tempi di magra; non un capolavoro, un ottimo inizio), Duncan è tornato con un secondo elogio alla fantascienza più ortodossa, il cubo di Rubik 'The Source code'. Perché è proprio quest'integralismo che colpisce, del figlio di Bowie. La sua opera seconda è un purissimo film di genere. Un inizio in medias res, una trama con alcuni buchi, ipotesi scientifiche non riscontrabili nella realtà, futuri alternativi, finali alternativi. Tutto quello che abbiamo imparato da Dick e Asimov. Ma cosa c'è di bello, oltre allo stile? Il cuore, c'è di bello il cuore. Jones sa anche caratterizzare i personaggi. Cosa non di poco conto, se pensiamo che il principale difetto degli action movie è quello di affettare caratteri e sfumature. A immedesimarsi col protagonista ufficiale della marina americana, come un eroe hitchcockiano catapultato in un intrigo di cui non conosce nulla, ci si mettono davvero 20 minuti. Molti critici hanno parlato di un film-videogame. L'effetto è quello, per le generazioni più giovani. Ma credo che un esperto cinefilo possa riscontare nella pellicola di Jones dei valori antichi: il fascino dell'investigazione, il sapore immortale della corsa contro il tempo e la ruffianeria romantica di una lovestory intrecciata alla spystory.
Credo che 'The Source Code' sia come Inception sarebbe dovuto essere. Veloce, immediato, dogmatico nel suo essere 'irreale'. Senza spiegoni inutili. Jones dimostra che con un budget non stratosferico, ma con qualche idea in più e meno spocchia, si possa fare un film di fantascienza superiore anche a Inception. Basta saper descrivere, saper caricare lo spettatore con un tema musicale incisivo. Sound and vision. Del resto qualcuno prima di lui l'aveva detto. L'augurio? Vedere Duncan Jones lasciato nella nicchia, a languire tra le produzioni indipendenti. Ci piace così, con le pezze sul posteriore ma traboccante di invenzioni. Ho fiducia in lui, come suo padre 40 anni fa quando gli dedicò il pezzo 'Kooks':
"Will you stay in our Lovers' Story. If you stay youn won't be sorry. 'Cause we believe in you. Soon you'll grow so take a chance"
Dopo aver visto 'The Source Code', ripensateci soltanto per 8 minuti. Basteranno per capire che è grande cinema.
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giovedì 5 maggio 2011
HABEMUS PAPAM, IL PONTEFICE DI MORETTI E' UN UOMO
Sgombriamo il campo da due questioni. 'Habemus Papam' non è un film contro la Chiesa e non è un film sulla Chiesa. Non è un capolavoro e non è nemmeno un passo falso. E' un'importante tappa nella carriera registica di Nanni Moretti. Sembrerebbe una pellicola complessa, almeno nella prima ora. Invece, dopo alcuni giorni di estenuanti riflessioni, sono arrivato a una conclusione: 'Habemus Papam' è una storia che ha un'unica pretesa: quella di raccontare. In maniera semplice, lineare. Tanto cinema classico e poco 'morettismo' in senso stretto.
Veniamo ai pregi. Sono due: Michel Piccoli e il film quando in scena c'è soltanto Michel Piccoli. L'attore francese si sottrae, scappa, passeggia a testa bassa, mormora, osserva. Un personaggio tratteggiato in maniera superba e diretto con grandissimo amore. Quasi con commozione. Un Papa bello perché umano. La pretesa del regista è quella di dimostrare che tutti siamo uomini. Anche un Pontefice. E il dubbio è sinonimo di intelligenza, e l'infallibilità non è di questo mondo. E nel 2011 l'inadeguatezza è un sentimento comune. Piccoli, da solo, interpreta forse tre o quattro generazioni. Non soltanto un 85enne che vorrebbe rivivere la sua vita. Ma anche tutti gli uomini, anche più giovani, che per un motivo o per l'altro non si sono sentiti pronti ad assumere un ruolo.
Chiunque, a questo punto, vorrebbe trovare chissà quali significati nascosti, chissà quali metafore. E' Nanni Moretti, non Gabriele Muccino. Beh, il bello è che il significato è davanti agli occhi. L'uomo è libero di fare le sue scelte. Anche un balcone di piazza San Pietro può rimanere vuoto. Nulla dovrebbe essere ineluttabile. Per un Papa. Per i fedeli. Per i cardinali del conclave costretti al completo distacco dalla realtà. La ribellione a un qualcosa che sta per calare dall'alto è lecita e doverosa. Qui c'è tutto il messaggio di un ateo come Moretti. Che non se la prende con la Chiesa. Ma che da essa prende spunto per riflettere su cosa vuol dire 'scegliere' nel 2011
Difetti: i cardinali e lo psicanalista di Moretti. Non so perché, ma il macchiettismo dei porporati mi è sembrato eccessivo. Io sarei stato più cupo, in alcuni frangenti, meno caricaturale. E poi il personaggio interpretato dal regista mi è sembra gratuito. Quasi un automaggio a precedenti ruoli (Caro Diario, Aprile). Divertente, per carità. Ma fuori luogo. Il film, senza queste due zavorre, sarebbe stato più godibile e più originale. Se la satira anticlericale è assente, a tratti è assente anche quel tasso di serietà che si converrebbe in un film così ben girato e fotografato.
Infine il teatro. Anche qui, non voglio arrampicarmi per trovare metafore. Trovo solo che il teatro sia cosa bella, dolce e delicata. Come l'animo umano, che non vuole mai sentirsi prigioniero. L'omaggio di Moretti a questa forma d'arte riempie il film. Peccato per quel senso di incompiutezza che si porta appresso il finale. Magari il vero messaggio è tutto lì, in quel buio oltre le tende.
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martedì 19 aprile 2011
FATEVI PRENDERE A CALCI DAI NERD CON LO SPLENDIDO KICK ASS
"Perché nessuno vuole essere un supereroe, tipo Spiderman, ma tutti vogliono diventare Paris Hilton? Non ha nemmeno le tette". L'interrogativo, che pesa come un macigno sulle nostre coscienze, manda in brodo di giuggiole i NERD orgogliosi di tutto il mondo e temporaneamente fuori sincrono il giovane Dave Lizewski. 'Kick Ass', la graphic novel fatta film che racconta della rapidissima ascesa di Dave dalla polvere dimenticata di una fumetteria alla vita incosciente da giustiziere diurno, non ha un difetto uno che sia lecito. Al contrario, i pregi illeciti abbondano.
Ad esempio la facilità nel divertire e nel creare una mitologia degna della miglior saga supereroistica. I meriti vanno divisi equamente. Da una parte il creatore su carta Mike Millar. Dall'altra il regista dal talento incontenibile Matthew Vaughn. L'incontro empatico di due creativi vincenti ha fatto venir fuori una pellicola che ti gratta il palato. Non solo: ti fa sembrare intelligente una manciata di popcorn e ti riporta a un cinema che sfrutta il fascino ingenuo di un ottimo cartone anni 80.
Dicevamo della storia. Dave, stufo di essere invisibile al mondo, compra un costume ridicolo su eBay e passeggia per le strade cercando gattini e pupe da salvare. Fino a quando le prende. Ma ne prende così tante da invogliare qualcuno a riprendere il pestaggio con l'iPhone e schiaffarlo in tempo reale su YouTube. Il film a quel punto arriva a un bivio. Potrebbe perdersi come un Daredevil qualunque. Invece no. Niente riuscirà a superare i primi 45 folgoranti minuti. Ma la storia regge facendo equilibrismo sul filo dei generi, delle battute, delle inverosimiglianze. Ma perché Kick-Ass è un film imperdibile? Vediamo.
1- Le citazioni. Anche Tarantino sarà impallidito davanti al mausoleo di rimandi. Io ci provo con un elenco alla Saviano: Spiderman, Hulk, Alan Moore, Civil War, X-Men, Michael Mann, Park Chan-Wook, Ang Lee, Batman, Brian De Palma, Mike Mignola, Guillermo Del Toro, Tarantino, Kill Bill, Una vita al massimo, Peckinpah, Ghost Dog (gli scagnozzi di D'Amico arrivano cn la Freccia Rossa dal film di Jarmusch). E qualcosa dimentico sicuro.
2- La storia. Perché regge. In tanti criticano la scelta del regista: il film dopo una prima parte 'credibile' passa a una seconda 'illogica'. Nel senso che spuntano dei veri supereroi, a fronte dello sfigato Kick-Ass. Si perde il ragionamento di fondo. Proprio no. Anzi.
3- La colonna sonora. Avrei voluto scegliere io tutte quelle canzoni splendide e metterle nei posti giusti.
4- Gli attori. La piccola Chloe Moretz è un qualcosa di triturante. Se davvero, come si vocifera, sarà la piccola Nikki che cercherà vendetta in Kill Bill vol.3, beh aspettiamoci grande cose. Lizewski è perfetto, Mintz-Plasse è meravigliosamente figlio di papà. Ma soprattutto ritroviamo Nicholas Cage in un ruolo degno. Forse il migliore dai tempi (non esaltanti) di 'Stregata dalla luna' e 'Via da Las Vegas'. Infine il protagonista Aaron Johnson: il paladino più passivamente adorabile dei cinecomics.
Probabilmente il film più vicino a 'Kick-Ass' rimane 'Kill Bill vol.1'. Entrambi divertono in maniera assolutamente simile. E' questa l'onda pop che mi piace. Quella piena di cultura: conoscenza della musica, conoscenza del cinema, un'autoironia mai grossolana, una manciata di dialoghi folgoranti e un regista che sa prendersi dei rischi. Esempio opposto di popcorn movie inutile? 'Sherlock Holmes', per dirne uno. Qual è la differenza? Abissale: perché un regista con talento può cambiare completamente un film. Un regista solo presuntuoso può distruggerlo. Matthew Vaughn, continua così'.
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mercoledì 23 febbraio 2011
BLACK SWAN, IL FILM PERFETTO (QUASI) DI DARREN ARONOFSKY
Quanto è grande Darren Aronofsky? A giudicare dalla qualità di 'Black Swan' ('Cigno nero', ma il titolo originale è troppo superiore) proprio tanto. I registi sono il bello del cinema. Quelli bravi però: Aronofsky è grande perché i suoi film sono immediatamente riconoscibili. Come un pittore, Darren possiede delle pennellate che rimangono sulla pelle dello spettatore. 'Black Swan' è il film della consacrazione. Perché è cattivo, oscuro, angoscioso, onirico, delirante. Ovvero è Darren Aronofsky.
La particolarità del film è una: l'atmosfera del film riflette lo stato d'animo della protagonista. La cappa di angoscia e disperazione, prima rarefatta poi tremenda come un morso alla giugulare, non è altro che il cuore di Nina. Prima bianco. Poi nero. Prima perfettino con la mano tremante. Poi perfetto con la cattiveria a fior di pelle. La camera a mano, quasi una soggettiva, mette in simbiosi lo spettatore con il battito cardiaco della protagonista. E non viene nascosto nulla: abrasioni, unghie rotte, paranoie, incubi, impulsi sessuali. Il lavoro di Aronofsky, da questo punto di vista, è incredibilmente pulito. In più l'ambiente casalingo di Nina, arredato con una madre ex ballerina fallita e una cameretta da teenager americana qualsiasi e mai cresciuta, ci spiega grazie a due movimenti di macchina perché la ragazza non conosce il sesso e, in massima parte, la vita.
Ma perché, a parte il talento del regista, 'Black Swan' è un film ai limiti del capolavoro? Perché è un concerto tecnico. Colonna sonora, montaggio, fotografia, sonoro, inquadrature, recitazioni. Tutto è sincronizzato in maniera meticolosa. Piaccia o no, Aronofsky è riuscito a dare al film una stupenda circolarità. E i momenti puramente visionari (che non rivelerò), quando lo spettatore non è affatto convinto se ciò che sta vedendo è realtà o incubo, rimarranno nella memoria.
E quanti rimandi al cinema di riferimento. Facile pensare a Cronenberg se prendiamo ad esempio un film come 'Spider', dove il maestro canadese cerca (e ci riesce) di dare forma ai pensieri di uno schizofrenico. Ma non basta: gli incubi lynchani (Eraserhead, Velluto Blu), le allucinazioni alla Polanski (Repulsion, Rosemary's Baby), i chiari omaggi a Scarpette Rosse di Powell e Pressburger. Il tutto è meravigliosamente coordinato. E lascio stare i visibili rimandi alla breve, ma intensa, filmografia del regista: da rivedere 'Pi', 'Requiem for a dream', 'The Fountain' (flop meritato) e lo splendido 'The Wrestler'.
Ma al di là dello sfoggio tecnico, Aronofsky si conferma un autore che sa dirigere bene gli attori. Natalie Portman deve vincere l'Oscar come miglior attrice. E non solo perché fisicamente si è sottoposta a un duro lavoro. No, deve vincerlo e deve ringraziare Aronofsky, come accaduto a Mickey Rourke per 'The Wrestler'. Le scelte registiche valorizzano ogni minima espressione di Natalie e ci mettono al corrente di qualsiasi leggero cambio di umore. Stesso ottimo lavoro Aronofsky lo fa con la rivale Lily, interpretata dalla sorprendente Mila Kunis (già notevole in 'The Book of Eli'). La madre, che ha il volto di una spettrale Barbara Hershey, dà il vero tocco horror al mood della pellicola. Cassell promosso, come anche sono promosse una crepuscolare Winona Ryder e l'ambientazione nei viscidi corridoi della danza.
Ma veniamo ai difetti. Sicuramente, in alcuni momenti, Aronofsky eccede. E si autocompiace della voglia di grand-guignol. Penso a un bagno in cui Natalie si sveglia di soprassalto, o ai quadri che occhieggiano dalla parete in momenti poco opportuni, oppure all'insistito dettaglio delle unghie spezzate della protagonista. Si può criticare una certa freddezza di fondo, visto che i protagonisti si lasciano andare a pochissimi slanci emozionali. Ma, a fronte dei rischi prima commentati, certi difetti passano comodamente in cavalleria.
Manca poco alla notte degli Oscar. Facile pronosticare un Oscar per la Portman. Difficili le altre categorie, su tutte quella per il miglior film. Ma cosa lascia al cinema 'Black Swan'? Per me una convinzione: c'è ancora bisogno di registi che sappiano raccontare le storie in maniera personale. Aronofsky non ha inventato niente. Ma ce ne fossero oggi tanti registi coraggiosi come lui.
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giovedì 3 febbraio 2011
LA MIA VERSIONE: HO RICEVUTO UNA CAREZZA DAL BURBERO BARNEY PANOFSKY
Alcuni film sono come carezze. E, badate bene, non per forza si tratta di film d'amore. Non stiamo parlando obbligatoriamente di 'Love Story', piuttosto che di 'Harold e Maude' o di 'Insonnia d'amore'. Alcune belle pellicole, grazie a degli attori in gran forma e a un regia elegante, possiedono proprio la delicatezza di una carezza. E' il caso, sorprendente, di 'La Versione di Barney'.
La paura era la solita: libro interessante, film svilente. I casi recenti di 'Soffocare' di Pahlaniuk e 'The Road' di McCarthy (ma sul secondo il parere è molto personale, visto che il film è piaciuto a tutti tranne che a me) mi mettevano in guardia. Invece il regista Richard C. Lewis compie un mezzo miracolo: rilegge il testo di Mordecai Richler con intelligenza e passione. Sparisce quasi totalmente la cattiveria di fondo dell'immarcescibile Barney Panofsky. Quello letterario è un protagonista che non si fa amare completamente. E' distante da tutti. Sia dai personaggi che incontra, sia dal lettore. Il Barney tratteggiato in maniera superba da Paul Giamatti, invece, si porta dentro vizi e difetti di ognuno di noi. E' rissoso, ma romantico. E' indisponente, ma sensibile. E' superficiale, folle e orgoglioso. Sarà stato bravo Giamatti, ma la profondità del personaggio filmico quasi supera quella dell'eroe letterario. Il libro rimane un capolavoro. Il lavoro di Lewis non delude e coccola le aspettative.
La sceneggiatura del film, come detto, è ben bilanciata. La parabola di vita di Barney culla il lettore con una delicatezza inaspettata. Con una poesia a tratti travolgente. E alla fine ti sorprendi a immedesimarti, a tifare per lui. A volerlo come padre, se non come nonno.
Il cast a tratti ruba la scena al protagonista. Splendide le tre mogli Panofsky. Menzioni d'onore per Minnie Driver (Mrs.P) e Rosamund Pike (Miriam). La Pike in particolare, nel finale, ci regala un paio di sguardi malinconici che stringono il cuore. Azzeccate le caratterizzazioni dell'amico Boogie, dei suoceri Charnofsky e anche dello sciroccato padre Izzie, interpretato forse dal miglior Dustin Hoffmann degli ultimi dieci anni. Il tutto condito da una costante, flautata poesia.
Insomma un film che è un distico di parole sussurrate. Grottesco nella trama, illuminante nei dialoghi, malinconico nel finale. Poco graffiante, forse, rispetto al libro. Ma è pur sempre un sincero, grande cinema: ci sono pellicole tronfie che si reggono su molto meno.
martedì 1 febbraio 2011
HEREAFTER. AL DI LA' DEL CINEMA DI CLINT: DELUSIONE
Uno dei miei libri preferiti è 'La Zona Morta' di Stephen King. David Cronenberg, nel 1983, ne ha tratto forse il suo film più debole, malgrado un grande Christopher Walken. La serie televisiva omonima è discreta, ma nulla più. Il Johnny Smith protagonista di quel libro è il prozio del personaggio interpretato da Matt Damon in 'Hereafter'. Simili capacità: Johnny al tatto leggeva passato e futuro. Matt mette invece in comunicazione con l'aldilà. Tutto il dolore che si porta dietro il protagonista di quel libro, per il peso di un fardello che piano piano lo annienterà, ha il potere di coinvolgere e struggere il lettore. In 'Hereafter' invece il dolore è un fatto superficiale: basta il profumo di una sottana a far dimenticare a Matt Damon che comunicare coi morti non è come prendersi una pastiglia. E' questo, insieme a tanti, uno dei tanti difetti di un film terribilmente insipido che si chiama 'Hereafter'.
Chi scrive ama Clint Eastwood alla follia. Ma probabilmente Clint ha smesso di voler rischiare. A 80 anni una pausa è più che legittima. Ma, forse, fare un film all'anno non è il migliore dei tramonti. Si incorre magari, per la troppa foga, in sceneggiature raffazzonate. Come quella di questo film, o come quella del coevo 'Invictus', un altro film sbagliato. Lo script di Peter Morgan e così tanto prevedibile che fa sorridere. All'inizio, poi alla fine del film indispone. La bella giornalista francese (la comunque brava Cecile de France) durante il terribile tsunami del 2004 sbatte la testa e, prima di riprendere i sensi, si fa una passeggiata in un aldilà fatto di flash bianchi con persone sfocate che si agitano su fondali indefiniti. Wow. Poi si risveglia, torna in Francia e decide di scrivere un libro su questa esperienza. Un ragazzino perde il suo inseparabile gemello in un incidente stradale e si mette a cercare su internet dei medium per parlare con l'aldilà. Un medium americano ha smesso di contattare i morti e, dopo aver incontrato una ragazza a un corso di cucina che gli chiede di fargli vedere l'aldiquà (con esiti ovviamente tragici), decide di andare a farsi un viaggio di riflessione in Europa. Pensate che vi abbia raccontato la prima mezzora di film? No, questa è praticamente la trama. Un insulto a tutta la filmografia di Clint Eastwood.
Dove voleva andare a parare Clint? Non si capisce. La morte va accettata come un mistero e tentare di scandagliarne i contorni è sbagliato? Mah. La vita va vissuta senza aver paura della morte? Eh. Io non sono riuscito a capire cosa volesse dire il regista. Su alcuni giornali ho intravisto elogi alla 'visione laica' della morte che suggerirebbe la pellicola. Io ho solo visto un film scollato, telefonato, dove non c'è la minima emozione né un personaggio al quale valga la pena affezionarsi. E dove mancano tutti i temi cari al cinema Eastwoodiano. E sorvoliamo sull'accozzaglia di passaggi illogici. Il bambino lasciato da solo alla fiera del libro, dopo che era stato protagonista di un tentativo di fuga dai genitori adottivi.Il marito della giornalista francese che, dopo averle dimostrato amore incondizionato durante tutto il film,la molla al ristorante confessandole che si è messa con la collega che l'ha rimpiazzata sul lavoro. Tanta confusione.
“Chi è il padrone di questo cesso?”. Peter Morgan. Per piacere, Peter Morgan.
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