lunedì 1 marzo 2010
CLINT: ERI "INVICTUS", ORA PERO' HAI ANCHE TU UN PUNTO DEBOLE
Mai avrei pensato di potermi trovare, un giorno, a scrivere una recensione del genere. "Invictus" mi ha spiazzato. A circa metà del secondo tempo mi sono sorpreso a desiderare l'ingresso in scena di William Munny (Gli Spietati, 1992). Ovviamente con la mitica frase "Chi è il padrone di questo cesso?" e conseguente repulisti della nauseabonda atmosfera da serial televisivo.
Clint...coraggio....fatti dire che hai sbagliato un film. Non succedeva, a memoria mia, dal controverso "Mezzanotte nel giardino del bene e del male" (1997). Anche in questo caso, molta più noia che stupore. "Invictus" è un piatto lungometraggio con tempi da serial televisivo. E la mano di Clint Eastwood? Invisibile, più che invincibile.
Ma andiamo con ordine. Cosa ci si aspetta da un film di Clint Eastwood? In primis un grande lavoro sugli attori. Bene, in "Invictus" ce n'è uno. Isolato. Morgan Freeman. Il Mandela di Freeman è quasi perfetto. Qualche volta sembra di vedere un gigione alla Bill Cosby (I Robinson). In altri frangenti, davvero pochissimi, appare il leader che porta sulle spalle una Nazione intera. In entrambe le versioni, comunque, l'interpretazione dell'attore è convincente.
Ma se promuoviamo Freeman, non possiamo fare altrettanto con Matt Damon. Il capitano della Nazionale sudafricana di rugby è monodimensionale. Pienaar è completamente manipolabile dal "buonismo" mandeliano. Possibile? Non lo so, ma qui l'Eastwood touch non è pervenuto. E gli attori di contorno? Quasi invisibili, considerando che diranno un quarto delle battute dell'intero film. Può reggersi un intero film solo su Morgan Freeman? Nella direzione degli attori, in soldoni, stavolta Clint sbaglia il colpo.
Veniamo alla seconda cosa che ci si aspetta da un film di Clint Eastwood: l'analisi cruda e realistica della realtà che si racconta. Il Sud Africa di "Invictus" è sbiadito. Si perde completamente la visione della società sullo sfondo. Non metto in dubbio che il Mondiale di Rugby abbia solidificato i rapporti tra neri e afrikaaner. Ma nel promettente primo tempo, possibile che l'unico attrito registrabile sia nel meltin' pot all'interno delle guardie del corpo presidenziali? Tutto scorre in questa specie di stato di grazia, senza intoppi. E intanto lo spettatore sbadiglia.
Veniamo alla storia. Conosciuta, nell'epilogo. Avvincente nello svolgimento? Eastwood doveva e poteva osare di più. Di fatto nel film tutto va come dovrebbe andare e il regista non lascia allo spettatore una benché minima riflessione nè sulle problematiche razziali sudafricane, nè sulla complessità della figura di Nelson Mandela.
Due sono le scene simbolo di ciò che poteva essere e invece non è stato. La prima, quando la "nuova" guardia del corpo bianca, durante il solito footing notturno, chiede a Mandela come sta la sua famiglia. Mandela risponde: "La mia famiglia è composta da 52 milioni di sudafricani". Bene, da uno spunto del genere Eastwood poteva raccontarci di più del Mandela privato, dei suoi trapassi interiori. E invece zero.
La seconda scena è l'incontro per il thè tra Mandela e Francois Pienaar. Due chiacchiere scialbe e la sensazione di un'occasione persa, a livello cinematografico.
In definitiva, se a questi problemi ci aggiungiamo una regia convenzionale, delle partite di rugby assolutamente noiose e prive di pathos e dei dialoghi mai memorabili (colpa della sceneggiatura?), ecco che abbiamo un NON FILM di Clint Eastwood.
Se lo vogliamo vedere con occhi critici. Se invece vogliamo apprezzarlo per le capacità d'intrattenimento - del resto in pochi conoscono la storia della Coppa del Mondo di Rugby 1995 - allora potremmo anche dire che è un'onesta variante in un piovoso pomeriggio domenicale.
Ma al Cinema, purtroppo, non aggiunge davvero nulla.
Clint, sei vulnerabile anche tu.
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