giovedì 25 marzo 2010

L'INNOCENTE AMBIZIONE: L'UOMO CHE VERRA'


Amo una poesia di Salvatore Quasimodo, dal titolo "Uomo del mio tempo" (1946). Ieri sera, durante la visione de "L'uomo che verrà", non poteva non venirmi in mente. Un estratto:

Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Il secondo lungometraggio di Giorgio Diritti (dopo il bellissimo Il vento fa il suo giro) nasce dalla vita quotidiana e si conclude tra la morte quotidiana. L'uomo che verrà non è solo un bambino in fasce. E' l'uomo che ha macchiato l'esistenza con l'odio, e che ha bisogno di espiare. L'uomo che verrà è anche una riflessione di Diritti sulla ciclicità del male, se mi è consentito dirlo. Perché il Male è stato, ma da queste parti si muove ancora.
I pregi del film vanno trovati nella parabola narrativa. La quotidianità si intreccia con la paura, la vita più semplice a volte dimentica i pericoli più prossimi. Perché era effettivamente così, come mi è stato raccontato dai miei nonni: la vita doveva andare avanti.
Mi viene in mente la matriarca che fa irruzione nel festino tra donne del paese e partigiani, per evitare la perdita dell'onore. Tanta vita spontanea, e la mente corre dritta a "L'albero degli zoccoli" di Ermanno Olmi.
Il racconto scorre con fluidità. Poi c'è l'orrore, a interrompere tutto bruscamente. La telecamera non ci risparmia niente: esecuzioni, vigliaccherie, vendette. Tutto è lì, brutalmente nitido. Per questo il film non può essere considerato nè politico, nè ruffiano, nè retorico. L'occhio è, quasi sempre, quello della piccola Martina (la stupefacente Greta Zuccheri Montanari). Resa muta dall'orrore, agisce soltanto. E' l'innocenza l'unica via della speranza. Il salvataggio del neonato fratellino è l'unico atto puro (Del Toro nel "Labirinto del fauno"? Mi sa proprio di si).
Semplicità e innocenza dicevamo. Ma la pellicola nutre un'ambizione non comune. Le sottotrame sono tante, le inquadrature sono complesse anche nella loro fissità. Le musiche sono quasi spettrali, roba che in "Rosemary's Baby" di Polanski cantava il coro dell'Antoniano. Il finale, poi, ha un che di fiabesco che dà a Diritti un'autentica patente da giovane cineasta.
Insomma. Se ha un difetto, questo film, sta proprio nel voler dire tantissime cose. Ma forse il cuore sta tutto lì, nel giovane ribelle morto che viene consegnato alla famiglia coperto da un telo bianco, sorretto dalla stessa lettiga usata per trasportare il maiale da ammazzare.
Gli uomini sono diventati come animali. L'uomo che verrà. Appunto: l'Uomo, con la lettera maiuscola, deve ancora arrivare.

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