mercoledì 29 dicembre 2010

I 10 MIGLIORI FILM DEL 2010


10 – Il Profeta di Jacques Audiard, dramma carcerario sorpresa della stagione, è un film che ha fatto incetta di premi nei festival di tutto il mondo. Particolarmente lodati il protagonista Tahar Rahim e la confezione realista.

9 – La storia di Mammuth, eroe dei nostri tempi che fa i conti col suo passato, potrà anche essere risaputa. Ma il film ci restituisce un Gerard Depardieu in forma smagliante. Occhio a Gustave de Kervern e Benoît Delépine, due registi che hanno talento da vendere.

8 - The Messenger. Perla dell'ultimo cinema indipendente, la pellicola di debutto di Over Moverman riflette sulla guerra senza retorica. Consigliato a chi cerca un film che parli di attualità senza voler compiacere a tutti i costi lo spettatore. In grande forma Woody Harrelson, bravissima Samantha Morton

7 – Secondo me Inception non è il miglior film di Christopher Nolan. E non è nemmeno tutto questo capolavoro. Però bisogna dargli un merito: ha fatto parlare di sé oltre ogni previsione. Ha aperto dibattiti, scatenato prese di posizione, ringalluzzito culture cinematografiche sopite. Ambizione e coraggio, a Nolan va dato atto almeno di questo.

6 – La prima cosa bella è un film di Virzì al cubo. Si torna a Livorno, si torna a un certo cinismo che si era un po' perso per strada nelle ultime pellicole, ma soprattutto si riporta in primo piano un canovaccio degno della migliore commedia italiana. Strepitosa Stefania Sandrelli, convincente Mastrandrea. E' un film che può piacere all'Academy, tifiamo per lui.

5- Qui vado controcorrente. Codice Genesi (The Book of Eli nel più corretto titolo originale) è un film che mi è piaciuto tantissimo. Anche se la critica l'ha stroncato quasi all'unanimità. I fratelli Hughes volevano mettere su pellicola un fumettone che avesse i toni epici del western mescolati a una robusta visionarietà. Ci sono riusciti alla grande. Il racconto regge dall'inizio alla fine, e il tanto criticato colpo di scena finale può essere apprezzato, davvero, soltanto da chi ama il linguaggio del fumetto. Sorprendente cameo di Jennifer Beals.

4- Come doveva finire la saga di Toy Story? Esattamente come finisce il numero 3. Poesia infinita. Grazie Pixar. Verso l'infinito, e oltre.

3- L'uomo che verrà è il miglior film italiano degli ultimi anni. Esce in sordina, attesissimo da chi aveva amato 'Il vento fa il suo giro'. Cresce e vince un meritatissimo David, ricordando a tutti come la Seconda guerra mondiale non sia un argomento già troppo dibattuto. Fotografato splendidamente e recitato con una naturalezza che spiazza, il film di Giorgio Diritti entra a pieno diritto tra i titoli più belli che raccontanto la memoria del nostro Paese.

2- The Town, per chi scrive, è un piccolo gioiello. E' un intreccio di generi: un po' di polar (incontro tra poliziesco e noir) e molto heist movie (rapine). E' un'opera coraggiosa nei toni che porta la firma di un regista, Ben Affleck, che non è più una sorpresa. Palese il tributo, nei testi e nella caratterizzazione dei personaggi, al miglior cinema di Michael Mann.

1 – Il miglior film del 2010 segna un'epoca. The Social Network non è solo un film recitato alla grande e girato magistralmente. E' un compendio di cinema maturo, nel quale si fondono perfettamente una sceneggiatura inossidabile, una colonna sonora da urlo e una capacità di avvincere lo spettatore che non si registrava da anni. Auspicabile una meritata messe di premi agli Oscar.

domenica 28 novembre 2010

CATTIVISSIMO ME. MOLTE IDEE CHE DANNO UN'ALTERNATIVA


I lungometraggi di animazione, da circa 10 anni, si dividono tra Pixar e non Pixar. Difficile definire un film Pixar. Negli anni i vari Bird, Lasseter e Stanton hanno tirato fuori una serie di capolavori naturalmente ineguagliabili (Nemo, Monters&co., gli Incredibili,Ratatouille,Up). Facile definire un film non Pixar: debole. Storie straviste, personaggi che troppo devono ai classici Disney, dialoghi a volte senza senso e, soprattutto, tematiche adulte neanche minimamente abbozzate. Esempi? Kung-fu Panda, Shark tale, un paio di Shrek, il secondo Madagascar,la Gang del bosco, Koda fratello orso, Mucche alla riscossa. 'Cattivissimo me' si piazza proprio nel mezzo: è un film intelligente che non proviene dalla Pixar.

In breve: il signor Gru, di professione, fa il ladro di celebri monumenti. E' scorbutico, permaloso, legatissimo alla madre. Con lui vivono soltanto una miriade di piccoli esserini, chiamati Minions. Un giorno Gru conosce tre piccole orfanelle. Prima le usa per entrare nella reggia del suo acerrimo rivale Vector. Poi, però, lentamente ne rimane conquistato. E la prova finale sarà molto più difficile che rubare una semplice piramide.

La pellicola di Pierre Coffin e Chris Renaud (Illumination entertainment) non inventa niente di che. Ma ciò che si vede è fresco, scattante, sorprendente visivamente. La suite musicale orchestrata da Pharell Williams sembra uscita da un poliziesco americano anni 70: accattivante. La storia non vive di colpi di scena. Ma vive di personaggi.
Il burbero Gru, ufficialmente il figlio del critico Anton Ego (Ratatouille), è solo il divertente perno sul quale girano una serie di personaggi memorabili. I Minions, cugini degli Oompa Lumpa, sono inarrivabili: ognuno di noi vorrebbe averli a casa propria. E ogni minima gag con loro funziona. Le tre orfanelle sono adorabili. E quando le si sente parlare della voglia di essere adottate, si fa fatica a trattenere la lacrimuccia d'ordinanza. Il villain Vector sembrerebbe uscito direttamente da 'Gli Incredibili'. Ripetitivo? Forse. Ma un paio di sue battute sono folgoranti. E infine l'algida mamma. Più cattiva del figlio. E tremendamente familiare.

Un film che supera il 'già visto' con un ritmo indiavolato. Non un cartone adulto come 'Up'. Ma ci si avvicina. Un'opera che si pone a metà tra 'Coraline' di Selick (un capolavoro, per chi scrive) e appunto 'Gli Incredibili'. La piccola Margo è la piccola Boo (Monster&co., del quale si attende nervosi il sequel) con 2-3 anni in più? Prendiamolo come un affettuoso omaggio per chi sembrerebbe inarrivabile. Si, c'è vita oltre la Pixar.

giovedì 18 novembre 2010

THE SOCIAL NETWORK: UN FILM CHE FOTOGRAFA UN'EPOCA E SEGNA LA MATURITA' DI DAVID FINCHER


In una sera d'autunno del 2003, dopo essere stato mollato dalla sua fidanzata, lo studente di Harvard Mark Zuckerberg, un genio dell'informatica, siede al suo computer e inizia con foga a rubare tutte le foto delle studentesse delle università cittadine. Crea un sito, ci ficca dentro tutte le foto, chiede agli utenti di votarle. Ventimila contatti in due ore e il sistema informatico di Harvard va in crash. L'impresa viene notata da tre studenti, che chiedono a Mark di creare una nuova community che sia altra rispetto a MySpace: ognuno dovrò poter metterci la propria biografia, con tanto di foto. Siamo agli albori di Facebook.

Che cosa rende un film un'opera epocale? Che cosa lo consacra immortale perché attaccato col bostik a un preciso periodo storico? Non è sicuramente un attore, piuttosto che un'attrice particolarmente quotata. E' solo il racconto, la capacità di inquadrare quegli anni, che fa la differenza. Due film epocali sono 'Il Laureato' (1967, di Mike Nichols, culto) e 'Cinque pezzi facili' (1970, di Bob Rafelson con uno splendido Jack Nicholson). Avevano dentro un moto di rivoluzione: lo spettatore di oggi può utilizzarli per capire quel periodo. 'The Social Network', ottavo lungometraggio di David Fincher, è un film epocale perché fotografa gli anni zero in maniera perfetta. In più, secondo chi scrive, è l'atteso film della maturità per il 48enne regista americano, reduce dal buco nell'acqua del megapolpettone 'Il curioso caso di Benjamin Button'.

E proprio dal 'Curioso caso' si dovrebbe partire. Fincher, più a suo agio con una storia che abbia un sapore investigativo, rispetto al suo ultimo film si trasforma. Niente lungaggini e niente virtuosismi da kolossal. 'TSN' è una pellicola asciutta, acuta, pulita, adulta. Ci sono tutti gli ingredienti del tuo libro preferito: amore, tradimenti, gelosie, sesso, denaro, sete di potere, solitudine. La scelta di raccontare l'ascesa dell'idea (rubata? A voi il giudizio) del gelido Mark Zuckerberg attraverso due indagini legali è assolutamente vincente. La sceneggiatura di Aaron Sorkin, sorretta da una raffica di dialoghi geniali, riesce a dare un ritmo tale al film che le due ore planano. Non esistono attimi di stanchezza: un po' per la regia di Fincher, genitore di una serie di trovate notevoli (il campo-controcampo della litigata iniziale tra Mark e la fidanzata, il montaggio frenetico durante la creazione di 'facemash', la geniale visualizzazione in ombra/luce dei gemelli Winklevoss). Un po' per la fantastica colonna sonora del duo Trent Reznor (Nine Inch Nails) - Atticus Ross (autore del bellissimo score di 'The Book of Eli'). Ai due, tanto per intenderci, si perdona anche il clamoroso plagio dell'intro di 'Boys&Girls' dei Blur.

E questo è il Fincher che io amo. Non il Fincher ridondante del 'Curioso caso' o troppo cervellotico di 'The Game' e 'Panic room'. Il regista è tornato ai livelli dei suoi tre film migliori, ovvero 'Seven, 'Fight Club' e 'Zodiac'. E' tornato a raccontare delle storie in maniera personale, senza eccessi. Ha ricominciato a farlo con freddo realismo e con la capacità rara di avvincere lo spettatore che tutti gli riconoscevano. Un film adulto come questo, cioè un film che sa affascinare soltanto attraverso la forza dei dialoghi, segna il raggiungimento della definitiva maturità artistica.

E il messaggio? Un film epocale parla da solo. Eppure il regista non prende una posizione netta. Sospende il giudizio. Da una parte ci sono Mark Zuckerberg e tutte le persone che vorrebbero essere al suo posto. Dall'altro c'è Erika Allbright, la sua ex fidanzata, che se vogliamo rappresenterebbe tutte quelle persone che odiano i social network. Tanti amici virtuali significano soltanto solitudine. Un messaggio così banale non sarebbe da David Fincher. Infatti nessuna moralina, nessun metaforone. Facebook cresce ogni istante. Non lo puoi fermare, non riesci ad arginarlo, puoi solo scegliere se sottostare alle sue regole. Nessuno però, a proiezione finita, è costretto a scegliere dove stare. Nè per quanto riguarda la propria opinione sul fenomeno, nè per quanto concerne le singole battaglie legali (ogni personaggio ha la possibilità di dare la sua versione: Rashomon dice niente?). La scena finale è emblematica.

Sugli attori il discorso non potrebbe non essere entusiastico. In effetti un film ben riuscito, di solito, deve tanto alla compattezza del cast. Jesse Eisenberg dà vita a un protagonista freddo, nerd, stronzo, egoista. Ma anche a tratti generoso, sincero, ingenuo per quanto non attaccato ai soldi, semplice. Attore solido, farà strada. Andrew Garfield (attenzione: sarà il nuovo Peter Parker nel reboot di Spiderman di Mark Webb) invece è la rivelazione. Il giovane Eduardo Saverin è il personaggio più complesso. Saverin ama e odia Zuckerberg, e Garfield cattura questo mare di sensazioni contrastanti in maniera magistrale. Bravo anche Justin Timberlake nei panni del creatore di Napster, Sean Parker. Timberlake deve fare lo sciupafemmine spiantato e furbastro: ci riesce alla grande e magari non ha dovuto sforzarsi poi tanto. In parte anche la fidanzata Rooney Mara, che nei pochi momenti che ha a disposizione tira fuori il meglio di sé. E, infine, una menzione d'onore per Armie Archer. Il biondone interpreta i due gemelli Cameron e Tyler Winklevoss, olimpionici di canottaggio a Pechino e 'veri' padroni dell'idea Facebook. Non avevo capito che l'attore fosse uno solo. Quindi, gabbato dall'effetto speciale, devo dare merito ad Armie, interprete di due gemelli mai troppo simpatici né troppo antipatici che rimarranno nella memoria (mitica la scena di loro due a confronto col rettore di Harvard).

Cosa aggiungere? Facebookiamo? Fai il refresh? Aggiorni la bacheca? La foto è figa?
Ecco, 'The Social Network' è un film cool, figo. Non c'è pubblicità (effetti speciali), non si paga (attori inutili), niente che sia palloso. E' quello il segreto. La festa non può finire alle 11. E d'ora in poi, dopo aver chiesto l'amicizia a qualcuno, attendere la risposta di conferma non sarà più la stessa cosa.

giovedì 4 novembre 2010

LA PASSIONE: LO SPETTATORE SUBISCE L'ENNESIMA FICTION TRAVESTITA DA FILM


Un regista praticamente sull'orlo del ritiro e in crisi d'ispirazione (Silvio Orlando) viene ingaggiato per dirigere la rappresentazione della Passione di Cristo in un piccolo paese toscano. Qui combatterà con la propria incapacità di riscatto e con una piccola comunità sostanzialmente immobile. E' difficile commentare un film senza capo né coda come 'La Passione' di Carlo Mazzacurati. Noioso, inconcludente e privo di un qualsiasi significato evidente. Non riesco a capire come si possa finanziare un film del genere. Non vedevo una pellicola così inutile dai tempi dell'ormai mitologico 'Million Dollar Hotel' di Wim Wenders. Mentre subivo la proiezione mi sforzavo di trovare un senso alla trama, un senso ai personaggi, un senso allo sviluppo della pellicola. Arrivato alla fine, soppesato l'imbarazzante finale, mi sono chiesto perché. Cosa avrà voluto comunicare Mazzacurati? Lo straniamento di un artista davanti a un mondo nel quale non si riconosce più? Originale.

Ma andiamo con ordine: qual è il principale difetto del film? E' quello dei prodotti medi del cinema italiano attuale. Sono delle fiction trasposte sul grande schermo. La regia monocorde, i dialoghi inutili, le musichette fastidiose e, non ultima, l'immancabile presenza di personaggi macchiettistici che neanche la domenica sera su Rai Uno. Purtroppo il cinema italiano soffre di questa grave malattia. E fin quando il pubblico chiederà di vedere filmetti finanziati con 4 soldi, anziché opere autoriali che diano un contributo artistico, saremo costretti a sorbirci infiniti calici amari.

Poi la sceneggiatura. Mazzacurati, del quale avevo visto un paio di discreti film (Il toro, La giusta distanza), butta giù un copione inconcludente, dove i personaggi fanno cose senza senso con supremo sprezzo del ridicolo. Il protagonista è un regista sfigato che non ha voglia di fare niente, e che di riflesso trasmette allo spettatore una specie di ignavia latente. Il personaggio di Kasia Smutniak, che avrebbe meritato uno sviluppo migliore, sta lì a guardare il film da dentro da spettatrice non pagante. Il primo caso di metacinema inconsapevole. Corrado Guzzanti, a dir poco sprecato, capeggia una serie di macchiette di paese che vorrebbero far sghignazzare, ma che imbarazzano per insipienza. La Capotondi regge sulle sue spalle tutta la critica di Mazzacurati al sistema cinema. Mah.

Quando mi chiedono: “Ma ti piace il cinema italiano? Non ne parli mai”. Io rispondo da snob: “Mi limito a Sorrentino, Crialese, Garrone e ovviamente Nanni Moretti”. E' una frase limitativa e scontata. Ma dopo aver visto certi film, quasi mi darei ragione.

venerdì 15 ottobre 2010

THE TOWN, LA SECONDA SPLENDIDA VITA DI BEN AFFLECK


Ogni fan di Michael Mann, in maniera religiosa, dovrebbe trovare un angoletto nella propria casa, incastrarci una specie di altarino e metterci su una foto di Ben Affleck.
Se 12 anni fa, alla fine della proiezione di 'Armageddon', qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei glorificato il regista Affleck, sicuramente non gli avrei creduto. E invece mi trovo qui, esausto, a dire non solo che 'The Town' è il miglior 'robbery movie' (film basato sulle rapine) dai tempi di 'Heat'.

Ma anche che Ben Affleck è riuscito nell'impresa più difficile. Quella di non sbagliare l'opera seconda, quella storicamente più impegnativa per i giovani talenti (Chiedere a: Richard Kelly, Bryan Singer, Darren Aronofsky, Joe Carnahan ecc.). Già perché 3 anni fa in molti sobbalzarono sulla sedia davanti a 'Gone baby gone'. Il nuovo film di Ben Affleck fa di più: vince e convince.

La storia è semplice. Siamo a Charlestown, quartiere di Boston dove tutti (o quasi) rapinano banche per diletto. Il protagonista (Affleck) è un genio organizzativo e guida una banda di rapinatori. Non sanguinari, non violenti: semplicemente puliti e perfetti nell'esecuzione. Un giorno però qualcosa va storto (e qui entra in gioco il rimando a 'Heat'): il braccio destro di Affleck (Renner) per la fuga dopo il colpo si porta appresso un ostaggio, il direttore di banca.
La rapina riesce. Tutto bene? Non proprio: quel direttore di banca, rilasciato dopo la fuga, è una donna che rimane scossa per l'accaduto. Affleck decide di sincerarsi del suo decorso post traumatico. Siamo appena all'inizio del film.

Per una trama così lineare, colpisce la sicurezza del regista. Il rischio era concreto: perdersi e inciampare in una serie di luoghi comuni da serie tv di bassa lega. Invece Affleck sa cosa fare e dimostra subito di avere un pregio: lui, oltre a farlo, il cinema lo guarda. Conosce gli autori e le regole del genere: c'è Mann in tutta l'amicizia virile che lega lui e i suoi compagni. C'è Peckinpah nel crepuscolarismo di personaggi che in verità sono degli antieroi. Conosce Don Siegel e schiaccia l'acceleratore proprio nelle scene d'azioni più complesse. I dialoghi non sono mai banali, il film ha un ritmo sostenuto che non annoia, l'ambientazione urbana è di notevole impatto. E poi la profondità dei personaggi, il punto forte della pellicola. Affleck dà vita a un capobanda gentiluomo memorabile. E' un Neil McCauley (De Niro in 'Heat') meno cinico. Ma anche lui applica la famosa regola: “se vuoi fare il lavoro del rapinatore non devi avere affetti o fare entrare nella tua vita niente da cui non possa sganciarti in 30 secondi netti se senti puzza di sbirri dietro l'angolo”. E tanto mi basta.

E che dire di Jeremy Renner: la sua interpretazione conferma che le lodi ricevute per 'The hurt locker' non erano casuali. Rebecca Hall ci regala una protagonista femminile intensa, sofferta, che nelle scene finali del film ci strappa via il cuore per l'emozione. Convince anche il ritratto del poliziotto Jon Hamm. Lui probabilmente ha un faccione a modo troppo da serial televisivo. Ma il personaggio è scritto bene e la sua interpretazione regge.

E poi le rapine: adrenalina. Non è una cosa scontata: la spettacolarizzazione dei colpi in banca è un'arma a doppio taglio: puoi passare dalla noia all'esaltazione in un decimo di secondo. Invece Affleck non si abbandona ai fronzoli e ci regala un inseguimento in macchina tra i vicoli da antologia. Steve McQueen apprezza e ringrazia.

Infine....il finale. Tanto romanticismo mi ha decisamente spiazzato. E quell'espressione del volto di Affleck alla finestra, che in un attimo passa dalla delusione alla felicità pura, riassume da sola il concetto di complicità tra un uomo e una donna.
L'unico difetto: il solito Ben che si spara una marea di pose e che non si risparmia una-inquadratura-una che lo faccia apparire bello bellissimo.
Ma, a parte questo, davvero complimenti.

mercoledì 13 ottobre 2010

INCEPTION. IL GELO NELLA MENTE. E NEL CUORE.


Può, un film sui sogni, far raggrinzire dal freddo lo spettatore? Questo mi è capitato, con 'Inception'. Alla fine della pellicola non riuscivo a dare una forma alla mia opinione. E ancora adesso, dopo giorni di faticosi ragionamenti, probabilmente non padroneggio una posizione e avrò bisogno di una seconda visione.

E non è colpa della tanto sbandierata sceneggiatura impossibile di Christopher Nolan. No. Alla fine di 'Donnie Darko', oppure di 'Mulholland Drive', pur dovendo ancora fare i conti con dei punti oscuri, ero sicuro che qualcosa fosse cambiato dentro di me. Non con 'Inception'. Un film ambizioso, nuovo, intelligente. Ma gelido. Una stalattite.

Sinossi del film: DOM COBB (LEONARDO DICAPRIO) È UN ABILE LADRO, IL MIGLIORE ASSOLUTO NELL’ARTE PERICOLOSA DELL’ESTRAZIONE, CHE CONSISTE NEL RUBARE SEGRETI PREZIOSI DAL PROFONDO DEL SUBCONSCIO DURANTE LO STATO DI SOGNO, QUANDO LA MENTE È PIÙ VULNERABILE. LA RARA CAPACITÀ DI COBB HA FATTO DI LUI UN GIOCATORE AMBITO NELL’INFIDO MONDO DEL NUOVO SPIONAGGIO AZIENDALE, MA NE HA ANCHE FATTO UN LATITANTE INTERNAZIONALE E GLI È COSTATO TUTTO CIÒ CHE HA MAI AMATO. ORA A COBB VIENE OFFERTA UNA POSSIBILITÀ DI REDENZIONE. UN ULTIMO LAVORO POTREBBE RESTITUIRGLI LA SUA VITA, MA SOLO SE RIUSCIRÀ A REALIZZARE L’IMPOSSIBILE-INCIPIT. AL POSTO DELLA RAPINA PERFETTA, COBB E IL SUO TEAM DI SPECIALISTI DEVONO FARE IL CONTRARIO: IL LORO COMPITO NON È QUELLO DI RUBARE L’IDEA, MA DI PIANTARE UNA.

Veniamo a due punti di valutazione. 1- la filmografia di Chris Nolan. Quarant'anni, 6 film alle spalle, le speranze di mezzo mondo sul groppone quale nuovo eroe della New Hollywood. Nolan era atteso al varco: alcuni avevano parlato di film 'definitivo'. Altri ritenevano giustamente 'Inception' un passaggio fondamentale: budget altissimo, libertà sconfinata (cosa inusuale per un budget così alto), e soprattutto una pellicola che si andava un po' a posizionare come sublimazione di un lungo percorso. Dal capolavoro 'Memento' (per me resta il suo masterpiece), passando per 'The Prestige' e per il riavvio del franchise di Batman, Nolan aveva fatto montare l'attesa. E soprattutto aveva stabilito quali fossero i temi del suo cinema: la mente, la memoria, il passato, la lotta del protagonista contro se stesso. Purtroppo, a mio modo di vedere, 'Inception' non rappresenta un passo in avanti nella maturazione del regista. Perché il film tratta si tutti quei temi, ma senza aggiungere niente al già collaudato ingranaggio nolaniano.

E qui veniamo al punto -2. La sceneggiatura. Scritta dal regista in perfetta solitudine, uno script covato da un decennio. Il plot del film è molto figo, molto cool, molto complesso. Ma è tremendamente statico. Non c'è un attimo di stupore visivo. Lasciamo perdere il sistema per addormentarsi (vogliamo recuperare i pad collegati alle bioporte di 'Existenz' di Cronenberg? Vogliamo risvegliare i marchingegni di 'Se mi lasci ti cancello'? Caro Nolan, mah). Parliamo delle immagini. Di cosa sono fatti i nostri sogni? Spesso di cose senza senso. Potrei incontrare mia madre vestita da Gabibbo che serve del tè in Indonesia. Potrei anche incrociare Kim Basinger che mi ferma per leggermi 'Anna Karenina' in finlandese. I sogni sono l'assurdo. Non per i protagonisti di Nolan. Passi per uno di loro: stiamo parlando di soggettività. Ma possibile che tutti si addormentino per sognare perfette metropoli post moderne? E' questo per me il grande difetto del film. Il sostanziale gelo di fondo. I protagonisti sono delle macchine. Le ambientazioni sono dei magnifici salotti dove tutto si sta per compiere in maniera meccanica. E niente stupisce. L'ambizione di entrare in un sogno altrui, al fine di indurre un'idea, è sicuramente affascinante. Ma se tutto di riduce a un'operazione di spionaggio con una serie di scontri a fuoco...io non riesco a farmi trascinare.

La città che si ripiega su se stessa? Oddio, non mi sono strappato i capelli. La storia del 'calcio'? Ingegnosa, ma la storia del 'limbo' è una scappatoia troppo semplice. E poi le lunghe spiegazioni: inaccettabile che ogni 5 minuti uno degli attori fermi il film per spiegare cosa è successo 10 minuti prima. E il cinema? E l'interpretazione? Ecco: volevo un po' di visionarietà applicata al consueto razionalismo nolaniano. E qualche concessione all'ironia: ma in 'Inception' le battute sono 2 o 3, e Di Caprio si prende così sul serio che sembra stia ancora interpretando l'indimenticabile Billy Costigan di 'The Departed'.

Il cast merita un discorso a parte. Di attorini ce ne sarebbero. A Joseph Gordon-Levitt sembra che abbiano ammazzato il gatto un attimo prima del ciak: monodimensionale. Ellen 'Juno' Page è completamente fuori ruolo. Di Caprio è bravo, ma poco credibile nel suo tormento interiore che non raggiunge lo spettatore. Marion Cotillard avrebbe un ruolo interessante, ma le sue apparizioni sono poche e sacrificate per dar spazio alla farraginosa macchina narrativa. Si salvano il glorioso Ken Watanabe (malgrado il pessimo doppiaggio italiano), che con una smorfia ti dice già tutto, e il sottovalutato Cillian Murphy, forse il personaggio più empatico di tutto il film.

Veniamo alla parte buona. Alcuni recensori hanno criticato l'eccesiva invasività della colonna sonora. A me invece ha convinto. La storia appassiona, almeno fino a quando i livelli del sogno sono fermi a 2. La macchina spettacolare è notevole. Non ci si annoia mai. L'inizio è trascinante: ho sempre adorato la scelta di questo regista di iniziare i film in MEDIAS RES. I pochi momenti visionari del film sono azzeccati: penso a una locomotiva che sbuca all'improvviso, o alla stanza in cui il vecchio miliardario attende l'ultima parola del figlio.

Sarà che odio quella sensazione di essere davanti a un colossale esercizio di stile. Ecco, 'Inception' a tratti mi è sembrato un tentativo autocelebrativo. Troppo presto, Chris. Per il film definitivo c'è ancora tempo.

domenica 23 maggio 2010

POLANSKI, QUANDO L'AUTOBIOGRAFIA AL CINEMA E' UN PASSO INDIETRO


“Questo tribunale è una farsa”. Parola di Roman Polanski. O meglio, un pensiero del regista attraverso la voce di Pierce Brosnan. Accade nelle umide, acquatiche atmosfere di 'L'uomo nell'ombra' (The ghostwriter). L'ennesima fetta della stessa torta: nella pellicola ci sono tutti i temi più cari al cineasta. La discesa nell'incubo non è paragonabile né a 'Rosemary's Baby' (1968), né a 'L'inquilino del terzo piano' (1976). Sopravvive però quel senso di oppressione del protagonista, impotente davanti alla roulette del fato, che sta per fermarsi su un numero rosso.

Quel colore che, circa a metà film, fascia Olivia Williams, la moglie del premier inglese che forse si è macchiato di crimini di guerra. Un rosso improvviso: è arrivato il diavolo. La donna è Lucifero e vuole portarsi a letto l'ignaro ghostwriter Ewan McGregor, uomo qualunque assoldato per buttare giù la biografia di un leader politico chiacchierato. Il protagonista vorrebbe fare solo il suo lavoro. Ma è costretto ad affrontare una ex first lady misteriosa, l'oscuro passato del suo cliente e la strana morte del biografo che lo ha preceduto.

Troppo prevedibile, Roman. A metà film la tua roulette potrebbe sorprenderci e slittare sul nero. Purtroppo è inchiodata sul rosso. Un intreccio troppo convenzionale vanifica l'ottimo effetto ottenuto tramite atmosfera e ambientazione. Ci sono tutti gli ingredienti straconosciuti del tuo cinema. I sostenitori più accaniti apprezzeranno. Ma è lecito, dopo le ottime aurore de ' Il pianista' e 'Oliver Twist', aspettarsi di più. L'estemporaneo dileggio del tribunale dell'Aia, poi, sa di personale, con le dovute proporzioni. Ci sta e fa sorridere, ma uno spunto simile avrebbe meritato un plot più solido.

In definitiva, un passo indietro perdonabile a una leggenda. Ma confido nel futuro: che siano nuovamente note di libertà. I tuoi fan e il cinema ne hanno bisogno.

domenica 16 maggio 2010

DRAQUILA, L'AFFRONTO CON POCA SATIRA E MOLTO GIORNALISMO


Un cittadino aquilano sorride alla telecamera. Afferra fiero, incredulo, un vaso di plastica con dentro delle spighe di grano, finte. Il contenitore è griffato 'Protezione Civile', con tanto di stemma. Tra le tante sequenze evocative di 'Draquila' questa, per chi scrive, è la più rappresentativa. Pochi istanti per racchiudere il punto di vista di tutta un'inchiesta. Non un documentario: nessuna narrazione. Una tesi invece. Ben sviluppata, argomentata, con un filo di retorica politica che a tratti stanca, a tratti diverte. Questo è il monstrum della Guzzanti. Morale della favola: tante chiacchiere inutili su un prodotto che andrebbe analizzato per quello che è, e non per quello che si ha paura che sia.

Impossibile depurarsi dalle polemiche di casa nostra. Ma proviamo ad analizzare 'Draquila' da esterni, come se fossimo degli spettatori groenlandesi. Si parte da un fatto di cronaca, il terremoto in Abruzzo del 6 aprile 2009. Si analizza l'intervento ricostruttivo. Si ragiona sui soldi spesi. Si fa la conta di chi è intervenuto e di come lo ha fatto. Si ascoltano cittadini, istituzioni, enti, associazioni. Insomma, una torta con tanti gusti. E uscita bene. Il sapore può piacere o non piacere. Ma credo che si possa convenire sulla genuinità dell'operazione: 'Draquila' è un'inchiesta con pochi fronzoli. Pochissima satira vera e propria, se è vero che vediamo la Guzzanti che imita Berlusconi si e no per due minuti. Una robusta critica giornalistica, invece, alla legge che dà poteri indefinibili alla Protezione Civile. Che è la vera protagonista dell'indagine. Un meltin pot di belle inquadrature, immagini di repertorio e numeri di varia natura. Il ritmo cinematografico c'è, e la mente corre al più illustre predecessore, quel 'Bowling for Columbine' di Michael Moore che hanno visto in pochi.

Arriviamo ai rischi. In fin dei conti, quasi tutto quello che ci viene mostrato è già stato raccontato dai quotidiani italiani. Dov'è il pericolo? Che all'estero ci giudichino male? Se è vero che nel Nord America, mediamente, un'inchiesta video costa quanto tutto il budget che la Rai annualmente mette a disposizione per i documentari, ci accorgiamo che il mondo non prenderà 'Draquila' come un'anomalia. Una spesa del genere sottintende una cultura, in America come in Scandinavia. Alla fine, in controluce, Sabina Guzzanti sembra suggerire una sottoconclusione: in fondo, noi italiani Berlusconi ce lo meritiamo. Ipotesi partigiana, ma legittima: non esistono inchieste senza un chiaro punto di vista. E se si ama il cinema, bisogna lasciar fare il proprio lavoro agli autori. Invitati o no, d'accordo o meno.

domenica 25 aprile 2010

ALICE NEL PAESE DELLA NOIA


Noioso cominciare con un “ve l'avevo detto”. Più semplice esordire con una convinzione: 'Alice in Wonderland' è il film più fiacco e deludente di Tim Burton. Difficile non pensare alle pastoie disneyane. Difficile non credere che una cosa è dare vita a una sceneggiatura di John August (Minority Report,Big Fish,La Sposa cadavere). Un'altra è seguire un copione di Linda Wolverton (Il Re Leone....). Spesso, purtroppo, certi dettagli diventano decisivi.
Ma al di là dei difetti dello script, la domanda che sorge è un'altra: dov'è finito il Burton che amiamo? Le visioni, le follie, i colori, le citazioni, la cattiveria, la fiaba nera...che occasione sprecata.
Partiamo dalla storia. Telefonata è un eufemismo. Tutto quello che vedi già te lo aspetti 4 secondi prima. Il viaggio di Alice è previsto e conformista. Lo stupore è un dettaglio. La passività della protagonista, l'insipida Mia Wasikoska (roba che la Christina Ricci di 'Sleepy Hollow' è da Oscar), diventa anche la passività dello spettatore, trascinato a forza in questa carrellata di personaggi. Tutti, rigorosamente, appaiono come ce li si aspetta. E via verso questo benedetto giorno 'Gioiglorioso', col rischio di addormentarsi prima della fine.
Passiamo ai temi burtoniani. La critica alla plastificata società americana. Sopravvive nella stramba corte della Regina Rossa. Quei nasi finti, quelle panze posticce da commedia dell'arte. Il messaggio è chiaro. Tutto troppo breve però. Burton, non sei pervenuto.
Il rapporto padre-figlio. La partenza è incoraggiante. Si ma poi? Burton (o chi per lui) preferisce sbrodolare con i 'Tagliategli la testa', anziché approfondire l'incidenza della memoria paterna nei sogni di Alice. Anche qui, il buon Tim non è pervenuto.
I teneri freak burtoniani. Difficile non pensare a Jack Sparrow, Willy Wonka e Ichabod Crane quando comincia a saltellare il Cappellaio Matto di Depp. Un grande attore, per carità. Ma se continua così, rischia di aggrovigliarsi sulla parodia di se stesso e perdere, così, credibilità. Forse, Tim, avrebbe potuto dirigerlo in maniera diversa. Insomma, il freak stavolta è troppo colorato, troppo 'già visto'. Troppo.
Ho visto Tim Burton in quelle dita mozzate maneggiate dalla Regina Bianca (Anne Hathaway, per me la migliore). Quanto, 10 secondi? Non ho mai sentito il cuore fremere. Non ho mai visto la telecamera rischiare.
Ho assistito all'ennesima operazione puramente commerciale, dove il tocco autorale è stato inibito.
Triste che anche il buon Tim, notoriamente diffidente verso i meccanismi hollywoodiani (Sweeney Todd aveva chiarito questa lontananza d'intenti), forse per ragioni imponderabili si sia dovuto allineare.
Sogno un nuovo film di Burton senza la Bonham Carter e Depp. Sarebbe già un buon punto di partenza. Intanto questo, deliranza o non deliranza, sarà dimenticato molto velocemente.
Ed è la cosa peggiore che possa capitare, nel Cinema.

domenica 28 marzo 2010

DONNE SENZA UOMINI, L'INCUBO LYNCHANO DI SHIRIN NESHAT


Un film americano sull'Iran. Possiamo aggiungerci l'aggettivo "buon"? Aggiungiamolo: un buon film americano sull'Iran. E' "Donne senza uomini", il coraggioso primo lungometraggio dell'artista visiva Shirin Neshat. Iraniana, appunto, e ormai trapiantata a New York. Così tanto influenzata dal cinema yankee che, nel suo film, è praticamente impossibile non riconoscere una serie di macroscopiche derivazioni.
La brava Shirin punta tutto sullo stupore. "Donne" è infatti un'incredibile serie di installazioni fotografiche. La telecamera è fissa, l'immagine è profonda chilometri. I colori sono il nero, il marrone, il grigio in tutte le sue sfumatore. Le tonalità veicolano la disperazione. Il contesto è l'Iran del 1953, i tumulti di piazza e lo storico, vano tentativo di approdare alla democrazia. Quattro donne però vivono una tragedia peggiore. I loro sogni vengono mutilati dall'ottusità maschile. Munis, Faezeh, Fakhiri e Zarin fuggono, tutte. Per tre di loro il rifugio è una cadente villa fuori Teheran, sorvegliata da uno strano custode. Nessuna di loro riuscirà a ritrovarsi. Per la quarta, resuscitata come uno zombie di Romero, l'unica speranza è nella lotta.
Insomma, gli ingredienti per una zuppa favolosa ci sarebbero tutti. La confezione è impeccabile. Ma il cuore? Latita. In effetti Shirin Neshat è più interessata a impressionare lo spettatore con la sua visionarietà. La storia è un pretesto. L'Iran lo vediamo, ma i singoli drammi delle protagoniste sono appena accennati. Il film naviga a vista. Spesso perdendosi in un incubo lynchano a metà tra Velluto Blu e Mulholland Drive. Spesso pigiando troppo sull'acceleratore del surreale. Della resurrezione abbiamo detto. Ma il bosco che circonda la villa della speranza? Un po' Von Trier (le plumbee atmosfere di Antichrist), un po' La Casa di Raimi, con tutto quel fumo. Le protagoniste lo cercano con insistenza, per un'ambigua catarsi.
Voto dieci allo stile. Voto sei alla coerenza narrativa. E quando Fakhiri indossa un fazzoletto attorno alla testa con tanto di occhialoni da sole, ci troviamo davanti un clamoroso omaggio sia a Rita Hayworth, sia appunto al peggiore degli incubi di David Lynch, Mulholland Drive.
Molta America. Forse troppa.

giovedì 25 marzo 2010

L'INNOCENTE AMBIZIONE: L'UOMO CHE VERRA'


Amo una poesia di Salvatore Quasimodo, dal titolo "Uomo del mio tempo" (1946). Ieri sera, durante la visione de "L'uomo che verrà", non poteva non venirmi in mente. Un estratto:

Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.

Il secondo lungometraggio di Giorgio Diritti (dopo il bellissimo Il vento fa il suo giro) nasce dalla vita quotidiana e si conclude tra la morte quotidiana. L'uomo che verrà non è solo un bambino in fasce. E' l'uomo che ha macchiato l'esistenza con l'odio, e che ha bisogno di espiare. L'uomo che verrà è anche una riflessione di Diritti sulla ciclicità del male, se mi è consentito dirlo. Perché il Male è stato, ma da queste parti si muove ancora.
I pregi del film vanno trovati nella parabola narrativa. La quotidianità si intreccia con la paura, la vita più semplice a volte dimentica i pericoli più prossimi. Perché era effettivamente così, come mi è stato raccontato dai miei nonni: la vita doveva andare avanti.
Mi viene in mente la matriarca che fa irruzione nel festino tra donne del paese e partigiani, per evitare la perdita dell'onore. Tanta vita spontanea, e la mente corre dritta a "L'albero degli zoccoli" di Ermanno Olmi.
Il racconto scorre con fluidità. Poi c'è l'orrore, a interrompere tutto bruscamente. La telecamera non ci risparmia niente: esecuzioni, vigliaccherie, vendette. Tutto è lì, brutalmente nitido. Per questo il film non può essere considerato nè politico, nè ruffiano, nè retorico. L'occhio è, quasi sempre, quello della piccola Martina (la stupefacente Greta Zuccheri Montanari). Resa muta dall'orrore, agisce soltanto. E' l'innocenza l'unica via della speranza. Il salvataggio del neonato fratellino è l'unico atto puro (Del Toro nel "Labirinto del fauno"? Mi sa proprio di si).
Semplicità e innocenza dicevamo. Ma la pellicola nutre un'ambizione non comune. Le sottotrame sono tante, le inquadrature sono complesse anche nella loro fissità. Le musiche sono quasi spettrali, roba che in "Rosemary's Baby" di Polanski cantava il coro dell'Antoniano. Il finale, poi, ha un che di fiabesco che dà a Diritti un'autentica patente da giovane cineasta.
Insomma. Se ha un difetto, questo film, sta proprio nel voler dire tantissime cose. Ma forse il cuore sta tutto lì, nel giovane ribelle morto che viene consegnato alla famiglia coperto da un telo bianco, sorretto dalla stessa lettiga usata per trasportare il maiale da ammazzare.
Gli uomini sono diventati come animali. L'uomo che verrà. Appunto: l'Uomo, con la lettera maiuscola, deve ancora arrivare.

martedì 23 marzo 2010

"RETROVERTIGO" - CHANGELING, L'ANGELINA CHE NON TI ASPETTI


Tra i partiti presi del cinema contemporaneo, svetta fiero l'adagio: "Angelina Jolie non sa recitare". Sbagliato. Effettivamente, dopo l'exploit di "Girl, interrupted" la diva con le labbra tumide non aveva più azzeccato un film. Poi però è arrivato Clint Eastwood. La meticolosa direzione del "Cavaliere pallido" l'ha rimessa al mondo. Ed ecco che viene fuori "Changeling" (2008), un quasi capolavoro che è stato sottovalutato dalla critica americana e schivato con consapevolezza dal miope pubblico italiano.
E' un film eastwoodiano fino al midollo. Tranne l'apertura finale, quando Angelina sussurra la parola "hope", speranza. Nei film di Clint la speranza non esiste, la salvezza non esiste. Angelina invece sussurra, come se volesse anticipare il grande disegno che di lì a poco grifferà "Gran Torino".
Ma al di là della valenza del film, bisogna sottolineare la performance dell'attrice. Intensa nei momenti drammatici, leggera quando l'aria è meno satura, monumentale quando si trova a esprimere, con una semplice espressione facciale, tutto lo sbigottimento per la sequela di ingiustizie perpetrate dalla polizia di Los Angeles.
La sua Cristine Collins, madre alla quale hanno rapito l'unico figlio, è una barricadera dell'umiltà alla quale è impossibile non affezionarsi. Angelina arriva in fondo al film integra, sia come personaggio sia come attrice: nessun compromesso e nessun cedimento per più di 2 ore. Dannatamente underrated.
Un film triste, effettivamente pesante in alcune parti. Ma incredibilmente profondo (il commovente finale) e, soprattutto, intimamente condivisibile da ognuno di noi.
Certi legami sono unici. Diamo alla Jolie i giusti meriti: ci ha regalato un'intepretazione memorabile ed è giusto annoverarla tra le grandi attrici dei mai tanto rimpianti anni zero.

venerdì 12 marzo 2010

THE HURT LOCKER, L'ORGOGLIO SENZA RIFLESSIONE


Uno dei migliori film del 2008 è stato "Nella valle di Elah", di Paul Haggis. Una pellicola scandalosamente ignorata agli Oscar, sia per le interpretazioni (Tommy Lee Jones da brividi, Charlize Theron forse al suo massimo) sia per la sceneggiatura. Il buon Haggis, già sceneggiatore di "Mystic River" e "Letters from Iwo Jima" per Eastwood, ha buttato giù lo script del film insieme al giornalista Mark Boal.
Lo stesso Boal ha scritto per Kathryn Bigelow "The hurt locker". Vincitore di 6 premi Oscar: regia, film, sceneggiatura originale, montaggio, sonoro, montaggio sonoro.
In entrambi i film si parla di Iraq. Con Haggis lo immaginiamo. Ma al tempo stesso lo respiriamo. Con la Bigelow lo vediamo e lo temiamo. Due storie diverse. Due film di grande spessore. Ma perché uno è stato ignorato dall'Academy mentre l'altro ha trionfato? Proviamo a spiegare.
Il bivio parte dal messaggio. Il film di Haggis si concludeva con un vero e proprio affronto all'orgoglio militarista statunitense. Hank Deerfield, che ha perso un figlio ucciso dai suoi stessi amici commilitoni, issa la bandiera a stelle e strisce...al contrario. Nel linguaggio militare, una bandiera issata capovolta veicola un messaggio di aiuto per disastro. L'aiuto per una Nazione che ha perso l'Etica e la Morale.
Viceversa nel film della Bigelow non c'è nessuna richiesta d'aiuto. C'è un coraggioso artificiere (il bravissimo Jeremy Renner) che, dopo aver rischiato continuamente la vita, si ritrova a guardare in stato catatonico un enorme scaffale di un supermercato dal quale traboccano scatole e scatole....di cornflakes.
Le metafore pareggiano per potenza. I film sono stati scritti dalla stessa persona. Ma se da una parte c'è l'orgoglio della Nazione, dall'altra c'è la vergogna. E l'orgoglio può trionfare agli Oscar, la vergogna assolutamente no.
Peccato che la sceneggiatura di "Nella valle di di Elah" sia mille volte superiore a quella di "The hurt locker". Il senso di smarrimento dell'ex ufficiale Tommy Lee-Jones, repubblicano convinto che poco a poco realizza come la guerra sia capace di generare mostri, non può essere paragonato alla triste parabola dei soldati della Bigelow. Stilisticamente perfetto, montato da Dio, fotografato alla grande, girato in maniera coraggiosa, "The hurt locker" crea un'atmosfera imbottita di ansia e angoscia che però non scatena nè una riflessione autocritica nei soldati (semmai timidamente accennata), nè aiuta a capire perché questi ragazzi possano effettivamente rimanere senza emozioni, legati soltanto all'adrenalina da battaglia. Soldati coi quali condividiamo per due ore paure e e rischi. Ma questo succede solo grazie alla sapiente mano della Bigelow, che con la macchina da presa coinvolge lo spettatore al punto di non farlo quasi più respirare.
Paul Haggis invece aveva parlato al cuore. C'era riuscito illustrando l'ampio spettro dei nemici dell'animo umano: ambiguità, superficialità, solitudine, rabbia.
Complimenti alla pellicola che ha trionfato agli Oscar. Ma se vogliamo parlare di capolavoro meglio rivolgersi altrove. Stanno chiedendo aiuto.

giovedì 4 marzo 2010

THE BOOK OF ELI, LA PERFEZIONE STILISTICA HA UN CUORE


Premessa: ringrazio il Cinema perché continua, ripetutamente, a farmi tornare bambino.

"The Book of Eli" (Codice Genesi, nel solito titolo italiano cacio e maccheroni) è un film che si legge. Non mi era mai capitato, prima, di sfogliare un film. Accade, di solito, di vedere pellicole tratte da graphic novel. Ne cito due che ho amato. "Road to perdition" (Era mio padre, in Italia) di Sam Mendes e' stato tratto da una graphic novel di Max Collins e deve a quell'opera una certa fluidità narrativa. Stessa storia di "A History of violence" di David Cronenberg, tratto da una graphic novel di Vince Locke e John Wagner.
Il film di Albert e Allen Hughes, invece, proviene da una sceneggiatura originale. Possiede una forza strana: sembra suggerirti di averlo già visto, disegnato su qualche vecchio tomo impolverato. E non è tutto: il film è riuscito ad avvincermi in maniera subdola. Avevo voglia, seduto in sala, di girare la pagine per sapere. Posso dire, per quanto mi riguarda, che l'ambizioso progetto dei fratelli Hughes, quello di dare vita a una storia potente come un libro, è completamente riuscito.
L'ambientazione post-apocalittica è l'unico punto debole del film. Perché di film, libri e videogiochi immersi nella stessa atmosfera ce ne sono tantissimi. Il punto è che gli Hughes non ripetono l'operazione. Semplicemente la migliorano, la innalzano.
La fotografia mozza il fiato. In alcuni momenti sembra di fissare dei quadri. I lenti movimenti di macchina negli spazi aperti sono puliti e precisi. La tecnica narrativa è senza sbavature: di fatto lo spettatore apprende a poco a poco delle cause del disastro atomico. E non apprende tutto. Le citazioni sono tante e fantastiche: desolazioni e personaggi border-line alla John Carpenter, duelli e dialoghi alla Sergio Leone, sparatorie tra Bullitt e blaxpolitation.
E il messaggio? Potente, come la parola di un libro che rappresenta una religione. Scontato? No, se raccontato come lo raccontano gli Hughes. I colpi di scena finali non vanno svelati, quindi non dirò il mio parere sulla lettura biblica che suggeriscono i registi. Dirò solo che il film, apparentemente in maniera contraddittoria (i violenti corpo a corpo), stimola una notevole riflessione sui concetti di Fede e Speranza.
Gli attori: perfetto Denzel Washington (il suo addio al Cinema per darsi al teatro?), sempre maestoso Gary Oldman nell'incarnare un cattivo stereotipato ma più che credibile. Brava la co-protagonista Mila Kunis, sorprendente la rediviva Jennifer Beals (si si, quella di Flashdance)

I due registi di colore si sono fatti attendere. Ma l'attesa è stata ripagata. Nove anni dopo "From Hell", gli Hughes ci hanno regalato un western avanti con gli anni. Un film che sarà venerato dai posteri. Quando molto sarà irreparabile. Quando ci si appellerà soltanto alla Fede.

La splendida colonna sonora

lunedì 1 marzo 2010

CLINT: ERI "INVICTUS", ORA PERO' HAI ANCHE TU UN PUNTO DEBOLE


Mai avrei pensato di potermi trovare, un giorno, a scrivere una recensione del genere. "Invictus" mi ha spiazzato. A circa metà del secondo tempo mi sono sorpreso a desiderare l'ingresso in scena di William Munny (Gli Spietati, 1992). Ovviamente con la mitica frase "Chi è il padrone di questo cesso?" e conseguente repulisti della nauseabonda atmosfera da serial televisivo.
Clint...coraggio....fatti dire che hai sbagliato un film. Non succedeva, a memoria mia, dal controverso "Mezzanotte nel giardino del bene e del male" (1997). Anche in questo caso, molta più noia che stupore. "Invictus" è un piatto lungometraggio con tempi da serial televisivo. E la mano di Clint Eastwood? Invisibile, più che invincibile.
Ma andiamo con ordine. Cosa ci si aspetta da un film di Clint Eastwood? In primis un grande lavoro sugli attori. Bene, in "Invictus" ce n'è uno. Isolato. Morgan Freeman. Il Mandela di Freeman è quasi perfetto. Qualche volta sembra di vedere un gigione alla Bill Cosby (I Robinson). In altri frangenti, davvero pochissimi, appare il leader che porta sulle spalle una Nazione intera. In entrambe le versioni, comunque, l'interpretazione dell'attore è convincente.
Ma se promuoviamo Freeman, non possiamo fare altrettanto con Matt Damon. Il capitano della Nazionale sudafricana di rugby è monodimensionale. Pienaar è completamente manipolabile dal "buonismo" mandeliano. Possibile? Non lo so, ma qui l'Eastwood touch non è pervenuto. E gli attori di contorno? Quasi invisibili, considerando che diranno un quarto delle battute dell'intero film. Può reggersi un intero film solo su Morgan Freeman? Nella direzione degli attori, in soldoni, stavolta Clint sbaglia il colpo.
Veniamo alla seconda cosa che ci si aspetta da un film di Clint Eastwood: l'analisi cruda e realistica della realtà che si racconta. Il Sud Africa di "Invictus" è sbiadito. Si perde completamente la visione della società sullo sfondo. Non metto in dubbio che il Mondiale di Rugby abbia solidificato i rapporti tra neri e afrikaaner. Ma nel promettente primo tempo, possibile che l'unico attrito registrabile sia nel meltin' pot all'interno delle guardie del corpo presidenziali? Tutto scorre in questa specie di stato di grazia, senza intoppi. E intanto lo spettatore sbadiglia.
Veniamo alla storia. Conosciuta, nell'epilogo. Avvincente nello svolgimento? Eastwood doveva e poteva osare di più. Di fatto nel film tutto va come dovrebbe andare e il regista non lascia allo spettatore una benché minima riflessione nè sulle problematiche razziali sudafricane, nè sulla complessità della figura di Nelson Mandela.
Due sono le scene simbolo di ciò che poteva essere e invece non è stato. La prima, quando la "nuova" guardia del corpo bianca, durante il solito footing notturno, chiede a Mandela come sta la sua famiglia. Mandela risponde: "La mia famiglia è composta da 52 milioni di sudafricani". Bene, da uno spunto del genere Eastwood poteva raccontarci di più del Mandela privato, dei suoi trapassi interiori. E invece zero.
La seconda scena è l'incontro per il thè tra Mandela e Francois Pienaar. Due chiacchiere scialbe e la sensazione di un'occasione persa, a livello cinematografico.

In definitiva, se a questi problemi ci aggiungiamo una regia convenzionale, delle partite di rugby assolutamente noiose e prive di pathos e dei dialoghi mai memorabili (colpa della sceneggiatura?), ecco che abbiamo un NON FILM di Clint Eastwood.
Se lo vogliamo vedere con occhi critici. Se invece vogliamo apprezzarlo per le capacità d'intrattenimento - del resto in pochi conoscono la storia della Coppa del Mondo di Rugby 1995 - allora potremmo anche dire che è un'onesta variante in un piovoso pomeriggio domenicale.
Ma al Cinema, purtroppo, non aggiunge davvero nulla.
Clint, sei vulnerabile anche tu.

venerdì 19 febbraio 2010

TIM, TORNA TRA DI NOI


La mia generazione, nata durante il lustro che va dal 78 all'83, ha amato il Cinema grazie a Tim Burton. Eravamo tutti (più o meno) nelle prime età dell'intendere e del volere quando uscirono "Beetlejuice"(88), "Batman"(89) e "Edward mani di forbice"(90). Grazie alla tv, ma soprattutto grazie all'esplosione dei cartoni animati giapponesi, noi siamo stati la generazione che sognava. Burton ha semplicemente messo le ali a quei sogni. Non erano tanto gli antieroi burtoniani ad affascinare. Beetlejuice era uno sgradevole spiritello chiacchierone e maleducato. Il Batman interpretato da Michael Keaton era lontanissimo dal carisma del Bruce Wayne cartaceo. L'amore impossibile di Edward, infine, non avrebbe voluto viverlo nessuno. Erano i mondi burtoniani, ad affascinare. La fiaba. Meglio: la fiaba nera. Nulla accattiva di più del reietto, dell'escluso.
Ecco quel Tim Burton ha inventato una cifra stilistica. Ci sono i film di Tim Burton. Non potrebbe farli nessun altro. A tal proposito, "Alice in Wonderland" sembra fatto apposta per scatenare le visioni del genio di Burbank. Io però ho paura di questa operazione. Mi ricorda molto "La fabbrica di cioccolato". Budget imponente, storia risaputa, confezione impeccabile. Ma non c'era niente, nulla che riuscisse a sorprenderti davvero. Il film che sta per uscire non riprende direttamente l'Alice di Carroll. E' una sorta di sequel. Spero, quindi, che Tim abbia voluto spingere sull'acceleratore dell'alternativo. So già che troverò il Bianconiglio, il Cappellaio matto, il Brucaliffo e lo Stregatto. Ma vorrei indietro il Tim Burton capace di far commuovere con un semplice campo di girasoli. Il mio Tim è fermo a "Big Fish". Spero che torni al più presto tra di noi.

martedì 16 febbraio 2010

Coraline


Sarebbe bello se "Coraline" vincesse l'Oscar per il miglior film animato e, contestualmente, se "Up" si aggiudicasse la statuetta per il miglior film in assoluto.
A memoria d'uomo, mai due film animati così belli si sono ritrovati l'uno contro l'altro.
Carl&Ellie o la piccola Coraline? In ogni caso, è certo, vincerebbe la Poesia.

Io, intanto, mi devo svegliare ancora dall'incubo in cui, nel 2001, il buono ma non eccelso "Shrek" batte il capolavoro Pixar "Monters&co."

Misteri.

lunedì 8 febbraio 2010

CHRISTOPHER NOLAN, QUANDO IL CONFINE VIENE SPOSTATO PIU' IN LA'

Christopher Nolan insieme a Christian Bale sul set di "The Prestige"

Uscirà a Settembre in Italia "Inception", nuovo blindatissimo lavoro del folgorante regista anglo-americano

Quando si aspetta un film di un ristretto numero di registi, si vive una sensazione strana, di malata trepidazione cinefila. Si attende che il Cinema stia per essere in qualche modo riscritto. Ci si aspetta un upload della Settima Arte, per usare un termine che calza.
Capita con Michael Mann, con Terry Malick, con Tim Burton. Ultimamente capita anche con Christopher Nolan. Il giovanotto ha 39 anni e 7 film alle spalle. Avete capito bene. Un fenomeno che dal folgorante "Memento" (2000) fino a The Dark Knight (2008) è cresciuto tantissimo. Alla grande capacità narrativa (anche grazie al bravo fratello/co-sceneggiatore Johnatan) ha aggiunto, col tempo, un gusto dell'immagine e dei dettagli che sorprende.
Un film di Nolan è un cubo di Rubik che cerchi di risolvere in penombra.
Con "Inception", che uscirà in Italia il prossimo 3 settembre, il regista londinese promette nuove frontiere. La trama è blindata, il trailer è più criptico che mai.
Le prime immagini rimandano a importanti film sulla memoria come "Dark City" di Alex Proyas e "Strange Days" di Kathryn Bigelow (candidata quest'anno all'Oscar con "The hurt locker"). Mi aspetto un qualcosa di nuovo, di diverso. All'ottava pellicola penso sia arrivato il momento di fare il passo definitivo. Non più semplice culto. Avremo un nuovo Autore di riferimento? Il Cinema, stanco di avere sempre le stesse frontiere, se lo augura di cuore.

mercoledì 3 febbraio 2010

"UP", MERITI L'OSCAR E NON PERCHE' SEI UN CARTONE ANIMATO


Nella rosa delle 10 pellicole candidate all'Oscar, ufficializzata ieri, c'è anche "Up", ennesimo capolavoro Pixar. Non è la prima volta per un cartone, perché una tale candidatura la ricevette anche "La Bella e la Bestia" nel 1992.
La storia di Carl Fredricksen merita la statuetta perché è indimenticabile.
Inutile stare qui a magnificare questa pellicola, coi paroloni a effetto. Se non l'avete ancora fatto GUARDATELA, è un obbligo morale. Nonché una buona occasione di regalarvi una lunga settimana di riflessione.
Quello che mi preoccupa è il riverbero mediatico. Si dirà: era ora che vincesse un cartone. Magari lo si sminuirà: il Cinema è in crisi, tanto in crisi che l'Oscar se lo aggiudica un lungometraggio animato.
Scemenze da salotto.
"Up" E' il Cinema. La Vita, forse la vera protagonista del film, è senz'altro il più utilizzato dei personaggi in quasi 100 anni di grande Cinema.
Spero non vinca "Bastardi senza gloria", a mio parere il più debole tra i film di Tarantino. Ad "Avatar" lascerei le categorie tecniche.
Se gli anni "Zero" sono stati segnati dal meditabondo e sofferto solco eastwoodiano, speriamo che gli anni "Dieci" possano essere vissuti attraverso un'esplosione di Cinema che parli di un paio di fattori semplici semplici: la Forza e il Coraggio.
"Up", per me saresti un meraviglioso battistrada.

5 minuti di Cinema, incredibili

martedì 2 febbraio 2010

AVATAR, QUANDO L'EPICA SOMMERGE IL Déjà VU


"Non andare a vedere Avatar, è un misto tra Pocahontas, Terminator e Balla coi lupi". "Niente di che Pà, un incrocio tra Matrix e Guerre Stellari". "Guarda, anche un po' Robocop".
Ero terrorizzato prima di vedere Avatar. Ero sconcertato da due fattori: il primo, le recensioni sul kolossal, un spaccio incontrollato di cattivi presagi. Il secondo, l'improvvisa cinefilia delle persone (tranne alcune di mia conoscenza, davvero competenti), capaci di risvegliarsi dal torpore dei 4/5 film all'anno per ergersi a censori del buon Cameron (nella foto con Sam Worthington).
Visto Avatar, scoperto il delirio. Il film, in sè, è un meraviglioso racconto epico degno del miglior Wilbur Smith, per dirne uno. Una storia semplice semplice che si fa bere che è una meraviglia. Avvincente come un cartone animato giapponese degli anni '80. Il rimando ai sogni d'infanzia è riuscitissimo, io mi sono ritrovato catapultato a 20 anni fa.
Poi c'è il discorso dei rimandi. Immancabili. Tutti i film citati nell'intro di questo post, ci sono tutti. Tranne forse Robocop: il buon agente Murphy, poverino, aveva ben altri cazzi da risolvere. Ma quale film non li ha, i benedetti rimandi?
Salviamo Avatar, per piacere. Non per il gigantismo dell'operazione. Non per gli attori, normali. Non per la regia, di mestiere.
Ma per la potenza della narrazione. Semplice, eppure potente. La favola prima di andare a dormire. Un sonno conciliante e il sorriso sulle labbra di chi si è immedesimato.
Forse, però, il pubblico italiano ha dimenticato queste perle nel cassetto. Specie se piglia il bisturi e cerca ferite che non ci sono.
Il problema? I telefilm tanto in voga nel nuovo delirante millennio.
Si pretendono trame contorte per poi dire: "Che figata, ho capito tutto!".
Purtroppo il cinema è soprattutto altro. E' magia, è sogno, è suono e visione.
Il maledetto telecomando bisognerebbe distruggerlo per sempre.

mercoledì 13 gennaio 2010

I 10 FILM DEL DECENNIO SECONDO IL DIURNO - IL MIGLIOR FILM DEL DECENNIO


1. MYSTIC RIVER (Usa, 2003, Clint Eastwood)
2 Oscar 2004: Miglior attore protagonista (Sean Penn), Miglior attore non protagonista (Tim Robbins)

Il film sull'ineluttabilità del male. Direte voi: esiste già, sull'argomento, cotanta tragedia greca e non. Esattamente, ma non ancora esisteva una declinazione moderna tanto potente. Questo è il film del decennio, perché circa 7 anni fa Clint Eastwood ha ricordato a tutti che esiste il cinema classico. Fatto di attori, di emozioni, di dolori. Ha rimescolato tutte le carte. In tanti in questi anni hanno cercato di fare un film con le stesse tinte tragiche. Tutti buchi nell'acqua. Si è parlato tanto di "Match point" di Woody Allen. Secondo me un tentativo malriuscito di aggiornare la cinematografia del buon Woody allo stile eastwoodiano. Non si può fare.
Che dire del film. Inizia con una gioventù violata, finisce con una maturità colpevole. Una triste parabola, tanto struggente quanto verosimile.
Incredibili gli attori. A parte i premiati, esorbitanti le performances di Kevin Bacon e Marcia Gay Harden. Un cast in stato di grazia al servizio di una regia in stato di grazia.
Forse ci siamo saliti tutti quanti su quell'auto.

sabato 9 gennaio 2010

I 10 FILM DEL DECENNIO SECONDO IL DIURNO - TERZA PARTE -


TOP FOUR: CLINT EASTWOOD. Semplicemente perché, secondo me, Clint Eastwood è stato il regista che con maggiore continuità ha segnato l'ultimo decennio.

4. MILLION DOLLAR BABY (Usa, 2004, Clint Eastwood)
4 Oscar 2005: Miglior film, migliore regia, miglior attrice protagonista (Hillary Swank), miglior attore non protagonista (Morgan Freeman)
Un film sul rapporto tra un padre e una figlia. Non un film sull'eutanasia. Quest'ultima è stato solo l'ultimo, sofferto, struggente atto d'amore di un genitore. Eastwood non era padre della Swank nel film? E che c'entra. Guardiamo la sostanza, non la forma. E' stato il consiglio di Clint. Un film bellissimo. Avvincente nella prima parte, doloroso nella seconda. Giusta messe di Oscar, lo avrebbe meritato anche la sceneggiatura di Paul Haggis. Ma vinse Sideways, giusto così.

3. LETTERS FROM IWO JIMA (Usa/Giappone, 2006, Clint Eastwood)
Oscar 2007: miglior montaggio sonoro
14 Marzo 2007. Sono seduto sulla mia poltroncina comoda del cinema Odeon di Bologna, via Mascarella. In solitudine, come si conviene a una visione sofferta. Capolavoro. Eastwood racconta il dramma di poveri uomini, comuni. Giapponesi costretti ad andare a morire per una causa già persa. La partecipazione e la profondità del regista lasciano senza parole. Immenso Ken Watanabe, che dà al generale Tadamichi Kuribayashi un carisma d'altri tempi. La Guerra fa male a tutti, la guerra è il demone al quale tutti vogliono sfuggire. Lo vuole il soldato panettiere, che ha promesso di tornare alla figlia ancora nel grembo della moglie. Idem per il soldato americano, che catturato dai giapponesi confessa di voler rivedere sua madre. Giusta e intelligente la scelta di mantenerlo in lingua originale coi sottotitoli. Lo scandalo è che questo film non lo ha visto nessuno. Italiani, SVEGLIA!

2. GRAN TORINO (Usa, 2008, Clint Eastwood)
Ho già scritto di questo film su questo blog. Cosa aggiungere. Può l'odio trasformarsi in qualcosa di positivo? L'amicizia può avere anche la funzione di cambiare il caratteraccio di un veterano della guerra di Corea, indurito da figli irriconoscenti e da pregiudizi sbagliati? Sarà probabilmente l'ultimo film da attore di Clint. GRAZIE. Indimenticabili il finale, la lettura del testamento di Walt Kowalski e la Gran Torino guidata da Thao sulle note del bellissimo tema di Jamie Cullum.

mercoledì 6 gennaio 2010

I 10 FILM DEL DECENNIO SECONDO IL DIURNO - SECONDA PARTE -


7. EASTERN PROMISES (La Promessa dell'Assassino, Usa/Uk/Canada, 2007, David Cronenberg)
Se avessi dovuto stilare la top 10 degli anni 80, non avrei avuto problemi a inserire un paio di film del Maestro. Ma il fatto che riesca lo stesso a farlo, 20 anni dopo, dimostra la grandezza di questo cineasta unico nel suo genere. Il film è crudo, lirico, recitato divinamente, epico. Memorabili la shkodka, ovvero la cerimonia di iniziazione di Viggo Mortensen al codice Vor della mafia russa, e la già famosa colluttazione nella sauna in cui lo stesso Mortensen combatte nudo come mamma l'ha fatto.
Cronenberg, contravvenendo ai suoi costumi soliti, ha già annunciato che girerà il seguito.
L'attesa è snervante.

6. SPIDERMAN 2 (Usa, 2004, Sam Raimi)
Oscar 2005 Migliori effetti speciali

La più grande storia d'amore del decennio. Peter Parker e Mary Jane Watson. Più che nel fumetto, se possibile, i due protagonisti danno vita a un rincorrersi a tratti comico, a tratti struggente. Come il malinconico sguardo di Mj sul quale Raimi chiude il film. Peccato che nel terzo capitolo tutto andrà a puttane. Ma è bello pensare a Spiderman 2 come a un film autonomo. La sceneggiatura di Alvin Sargent è perfetta, Doc Ock non fa una piega, tutti i personaggi di contorno sono azzeccati, il tema musicale di Elfman è più incalzante che mai e riporta al "Descent into mistery" di batmaniana memoria.
Film sottovalutato dal pubblico (forse troppo complicato per lo spettatore da cinepanettone), ma giustamente lodato dalla critica. Il tanto auspicato incontro tra blockbuster e cinema d'autore? No, ho sempre pensato che "Spiderman 2" sapesse rappresentare qualcosa di più.

5. SIDEWAYS (Usa, 2004, Alexander Payne)
Oscar 2005 Miglior sceneggiatura non originale

Continuo a pensare che questo film possegga i dialoghi più brillanti degli ultimi 20 anni. Ricordo la sera che lo vidi al cinema, circa 5 anni fa, a Bologna, il cinema probabilmente era il Nosadella. Rimasi affascinato da una storia tanto semplice quanto avvincente. Miles o Jack? Il vino è solo un pretesto per raccontare l'umanità, l'amicizia virile, le scelte, l'importanza degli affetti più veri, la precarietà del carpe diem. Strano che il bravo Alexander Payne sia pressocchè fermo a livello cinematografico. Oscar a Paul Giamatti? Forse Miles non avrebbe approvato.

martedì 5 gennaio 2010

I 10 FILM DEL DECENNIO SECONDO IL DIURNO - PRIMA PARTE -


10. KILL BILL VOL.2 (Usa, 2004, Quentin Tarantino) Il merito di questo film sta in due aspetti.
Il primo: spiazza completamente ogni previsione su come poteva essere, dopo la fine del Vol.1. Sono due film diversi, per linguaggio e ritmo. Eppure sono gemelli, perché NIENTE di ciò che era rimasto oscuro nel primo capitolo non viene spiegato.
Il secondo: regala al Mondo una Uma Thurman alle soglie della perfezione recitativa.
Geniale il dialogo iniziale ai 2 Pini tra la Sposa e Bill, per pathos e tensione accumulata. Memorabile il pianto finale di Beatrix Kiddo: ognuno di noi avrebbe voluto piangere assieme a lei.

9. BIG FISH (Usa, 2003, Tim Burton)

Questo film è semplicemente, si fa per dire, la summa di tutta la poetica burtoniana. Il doppio, il sogno, la parola, la favola, il circo, il rapporto padre-figlio, i freak, il destino. Non manca nessuno. Nemmeno la colonna sonora di Danny Elfman.
Burton probabilmente raggiunse il suo apice con "Edward scissorhands". Ma questo film chiude un lungo filone che, ahinoi, rimarrà forse isolato. Quello nuovo si è già aperto con gli effetti speciali (Willy Wonka, Alice is coming). Io preferisco il classico racconto burtoniano.

8.IL LABIRINTO DEL FAUNO (Messico/Spagna/Usa, 2006, Guillermo Del Toro)
3 Premi Oscar 2007: miglior scenografia, miglior fotografia, miglior trucco.
Un film che hanno visto in pochi, purtroppo. Violentissimo per scelta, sviluppa uno dei temi cari a Del Toro: la purezza dell'infanzia (da Del Toro sullo stesso argomento Mimic, Cronos e La Spina del Diavolo). Lo fa in maniera fantastica, scoprendo la bravissima Ivana Baquero. La fotografia di Guillermo Navarro, premiata con l'Oscar, varrebbe da sola il prezzo del biglietto.
E non oso immaginare cosa potrebbe fare, il bravo fotografo messicano, con la visualizzazione del prossimo "Lo Hobbit".....